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Pietro Mascagni e la musica dimenticata

Pubblicato il 21 maggio 2021 sulla rivista culturale Il pensiero mediterraneo


Se fosse vissuto nella nostra epoca sicuramente Mascagni sarebbe stato un richiestissimo opinionista conteso dalle trasmissioni di punta delle più importanti emittenti televisive nazionali e internazionali. Sì, perché, oltre ad essere uno dei più grandi musicisti italiani della storia, Pietro Mascagni è stato un vero divo, capace di infiammare gli animi del pubblico dei più importanti teatri del mondo e popolarissimo anche negli ambienti estranei alla musica.

La sua fama fu talmente grande ed il suo carisma talmente forte da riuscire involontariamente a condizionare per decenni la moda: chi vestiva bene doveva vestire come lui; avere una bella pettinatura significava avere un bel ciuffo alla Mascagni, espressione che viene utilizzata ancora oggi; anche l’usanza di portare barba e baffi, molto in voga in quegli anni, fu sostituita da quella di portare il viso sbarbato e privo di peluria come usava Mascagni. In altre parole, egli fu un’icona di stile, quello che oggi chiameremmo un influencer, seguito ed emulato da milioni di followers sparsi in tutto il mondo.

Figlio di un fornaio, nacque a Livorno nel 1863 e già all’età di dieci anni rimase orfano di madre. Nel maggio del 1882 riuscì a partire per Milano grazie all’aiuto economico del conte Florestano de Larderel e nell’ottobre successivo superò l’esame d’ammissione al Conservatorio della città divenendo allievo del compositore A. Ponchielli; in quest’occasione incontrò Giacomo Puccini con il quale strinse una forte e sincera amicizia. Dotato di un carattere ribelle, nel 1885, dopo un turbolento e polemico colloquio con il Direttore del Conservatorio per via delle sue numerose assenze dalle lezioni, decise di abbandonare gli studi rinunciando al conseguimento del titolo. Le ristrettezze economiche lo portarono ad accettare l’incarico di direttore d’orchestra in varie compagnie d’operetta iniziando a viaggiare in tutte le città più importanti d’Italia.

Nel 1887 arrivò a Cerignola, in Puglia, e, stanco della vita da girovago e della condizione di precarietà economica, decise di accettare l’offerta del Sindaco di fondare e dirigere una Scuola di Musica comunale con annessa Filarmonica. Qui ebbe il suo primogenito con Lina Carbognani (1862-1946) che, però, morì ancora infante dopo pochi mesi; nel febbraio dell’anno successivo la coppia si sposò e negli anni a venire ebbero tre figli.

Nel 1889, stando sempre a Cerignola, decise di partecipare al Concorso indetto dalla Casa Editrice Sonzogno di Milano e, in pochi mesi, compose Cavalleria rusticana, opera in un atto unico tratta da una novella di Giovanni Verga. Preso, però, dall’incertezza e dallo sconforto decise di non parteciparvi più; nell’ultimo giorno utile, la moglie Lina, a sua insaputa, spedì lo spartito iscrivendo ufficialmente l’opera al Concorso Sonzogno. Nel marzo del 1890 la giuria comunicò i vincitori: su ben 73 opere presentate, Cavalleria rusticana fu proclamata vincitrice tra lo stupore e l’incredulità dell’autore.

Rappresentata al prestigioso Teatro Costanzi di Roma nel maggio successivo, l’opera ebbe un clamoroso trionfo e, considerata il primo grande capolavoro verista, nel giro di pochi mesi venne rappresentata nei maggiori teatri d’Italia e d’Europa. Nasceva il mito di Pietro Mascagni! Egli cominciò a ricevere inviti e onorificenze da tutto il mondo: l’Imperatore Guglielmo II lo convocò a Berlino; persino la Regina Vittoria, in Inghilterra, nell’estate del 1893, volle fortemente conoscerlo di persona e gli chiese di dirigere Cavalleria rusticana nel Castello di Windsor nonostante fosse già stata eseguita due anni prima.

I mezzi economici ottenuti gli consentirono di abbandonare l’impiego di Cerignola e di dedicarsi esclusivamente alla composizione e alla direzione d’orchestra. Dalle sue opere emergeva un grande talento naturale, una fervida immaginazione sonora ed un notevole temperamento. Anche se talvolta l’armonia poteva sembrare poco ricercata o l’orchestrazione apparire a tratti superficiale, le sue composizioni brillavano per le molteplici idee musicali, per l’ardore e la prorompente musicalità: caratteristiche, queste, che gli consentirono di giungere al cuore del pubblico in maniera diretta ed immediata. Inoltre, l’utilizzo di una scrittura musicale impervia e abbondante di difficoltà tecniche gli fece guadagnare, tra i cantanti d’opera, il simpatico appellativo di compositore spacca voci.

Non volendo essere catalogato solo come compositore verista, in continua scommessa con sé stesso, spaziò dal crepuscolarismo, al decadentismo, al simbolismo, e nel giro di pochi anni riuscì a comporre un elevato numero di melodrammi ricchi di vibrante passionalità, forza drammatica, grande lirismo e calda sensualità.

Come direttore d’orchestra tenne numerose tournée in Europa e nelle Americhe, dirigendo le sue opere ma anche quelle dei suoi amici e colleghi contemporanei, oltre ai grandi capolavori della storia. Ogni sua esibizione era un vero e proprioevento capace di incantare e di esaltare gli animi dei presenti; ed il pubblico, a sua volta, rispondeva con le cosiddette tempeste mascagnane: vere e proprie ovazioni accompagnate da lunghi e scroscianti applausi uniti al lancio di fiori e ad urla di approvazione.

Spontaneo ed immediato, turbolento e, ovviamente, poco incline alla diplomazia, Mascagni seppe conquistarsi una grande notorietà internazionale e divenne un fenomeno della sua epoca, un vero e proprio mito vivente. Nel corso della sua lunga carriera ebbe anche delle rovinose cadute, come con l’opera Le maschere che il 17 gennaio 1901 andò in scena contemporaneamente in sei teatri italiani registrando ovunque un fiasco totale, tranne a Roma sotto la sua direzione. Ma seppe rialzarsi e ripartire senza indugi come solo i grandi sanno fare!

Negli anni del Fascismo i governanti italiani non si fecero sfuggire l’occasione di sfruttare la sua notorietà per una sana propaganda internazionale, affidandogli compiti istituzionali di rappresentanza dell’Italia nel mondo. Nel 1929 ricevette l’ambita nomina di Accademico d’Italia insieme a Gabriele D’AnnunzioGuglielmo MarconiLuigi PirandelloEnrico Fermi e tanti altri intellettuali, tra cui i compositori don Lorenzo Perosi e Umberto Giordano (il quale nel ’39 compose le musiche di scena del Cesare, dramma in stile encomiastico scritto da Giovacchino Forzano con la collaborazione di Benito Mussolini).
Nel 1932 Mascagni, in linea con i tempi, si iscrisse al Partito fascista ma ebbe sempre un rapporto problematico con il regime, mostrandosi contrario alla “stupida guerra”, ma soprattutto facendogli una cattiva propaganda con la composizione della sua ultima opera lirica, Nerone, nel 1935, e mantenendo un rapporto distaccato con i gerarchi fascisti che, per questo, non lo guardavano di buon occhio.

Purtroppo, dopo la sua morte, avvenuta in contemporanea con la fine della Seconda Guerra mondiale, nell’ottica di cancellare tutto ciò che era appartenuto al regime e quasi come punizione per la sua adesione al partito fascista, le sue opere, eccetto Cavalleria rusticana, furono in gran parte occultate e sminuite dalla critica forse con l’intento di farle dimenticare.

Ancora oggi, in riferimento al solo melodramma, sono davvero in pochi coloro che conoscono quei capolavori come il Preludio o il duetto d’amore del terzo atto dell’opera I Rantzau, la stupenda Barcarola di Silvano, il meraviglioso Intermezzo sinfonico del Guglielmo Ratcliff, l’amoroso duetto delle ciliegie de L’amico Fritz, la maestosità dell’Inno del Sole di Iris utilizzato, tra l’altro, come inno ufficiale delle Olimpiadi di Roma del 1960; giusto per citare solo alcune pregevoli pagine e tralasciando la vasta produzione cameristica, sia vocale che strumentale, anche quella purtroppo poco valorizzata.

Pietro Mascagni morì il 2 agosto 1945 a Roma: il Governo inglese trasmise un messaggio di cordoglio al governo italiano, il comando francese fece ammainare la bandiera a mezz’asta all’Hotel Plaza (luogo della morte e sua residenza stabile dal 1927), il Papa Pio XII inviò un suo rappresentante, la radio di Mosca mandò in onda musiche mascagnane per tutto il giorno, in tutto il mondo Mascagni fu ricordato con grande rispetto. Il Governo italiano, invece, non partecipò neanche ai funerali ai quali accorse una miriade di persone. La gravità dell’episodio fece insorgere persino il mite e silenzioso Umberto Giordano, il quale lo definì una “Vergogna”.

Col passare dei decenni la situazione è rimasta invariata. Motivi ideologici non ancora superati e difficoltà tecniche di esecuzione hanno determinato la scomparsa delle opere di Pietro Mascagni dalle stagioni operistiche e teatrali, producendo un grande impoverimento culturale che credo sia giunto il momento di superare definitivamente, riscattando dall’immeritato oblio la quasi totalità delle composizioni di uno dei maggiori rappresentanti della cultura italiana ed europea del ‘900.

Luigi Solidoro

La Marcia Funebre per i funerali di Pio IX (Vincenzo Alemanno)

Breve intervista a Luigi Solidoro e recensione della sua nuova pubblicazione.
Leggi sulla rivista culturale Il Pensiero mediterraneo, 26 marzo 2021.


In occasione del periodo di Quaresima 2021, è uscito nei principali book store internazionali il nuovo lavoro del M° Luigi Solidoro, da tempo attivo nel campo della ricerca storico-musicale.

Si tratta della trascrizione per pianoforte di una Marcia funebre composta dal gallipolino Vincenzo Alemanno, attivo come organista nel XIX secolo nelle principali Chiese di Gallipoli. Una composizione tratta dalla sua Messa di Requiem e composta, su commissione del Rev.mo Capitolo della Città di Gallipoli, per i Solenni Funerali di Papa Pio IX, celebrati nella Chiesa Cattedrale di Sant’Agata, sabato 16 marzo 1878 (quando l’Alemanno era organista contemporaneamente presso la stessa Cattedrale di Sant’Agata, la Chiesa del Carmine e la Chiesa delle Anime). Il documento, di straordinaria importanza per tutti gli studiosi e per tutti gli appassionati delle tradizioni e della musica del Salento, è posseduto in originale dallo stesso Solidoro assieme ad altre composizioni inedite del maestro Alemanno.

L’introduzione storico-musicale del volume, curata dalla dott.ssa Laura De Vita, oltre a descrivere le caratteristiche peculiari formali e stilistiche di questa composizione, svela finalmente anche la data ed il luogo di morte dell’Alemanno, rimasti fino ad oggi sconosciuti.

L’Ufficiale dell’Anagrafe del Comune di Gallipoli non ha potuto mai comunicarmi la data ed il luogo del decesso, rimasti sconosciuti per oltre un secolo. Le difficoltà nel rintracciare questi dati derivavano, da un lato, dall’assenza di annotazione dell’atto di morte sul foglio di nascita del compositore, risalente all’anno 1827 e, dall’altro, dalla totale assenza del nome di Vincenzo Alemanno nei registri dei morti di Gallipoli post 1913. Dopo attente e faticose ricerche condotte autonomamente su tutto il territorio della Provincia, sono riuscita finalmente a ripercorrere le orme dell’Alemanno scoprendo il Comune dove si era trasferito negli ultimi anni di vita e, conseguentemente, anche la data precisa della sua morte” spiega Laura De Vita. Un prezioso tassello che si aggiunge così al già ricco patrimonio artistico-musicale della ridente Kale Polis jonica, i cui abitanti sono intimamente e gelosamente legati alle proprie tradizioni, alla propria storia e alla propria eredità culturale. 

Il volume, edito da Youcanprint nel febbraio 2021, può essere acquistato in tutti i principali bookstore, sia in formato digitale, sia in formato cartaceo.

Luigi Solidoro e Laura De Vita, marito e moglie nella vita, hanno in comune la passione per la ricerca storico musicale, tanto da pubblicare, nel 2019 e nel 2020, due monografie sulla vita e le opere di due importanti compositori: Francesco Luigi Bianco, molto amato per le sue frottole del venerdì dell’Addolorata, ed Ercole Panico, discusso ed acclamato capo fanfara in terra d’Otranto nella seconda metà del XIX secolo. 

La marcia funebre – spiega il maestro Solidoro – è una composizione musicale che fa parte del più ampio genere della marcia, cadenzata sul passo umano e destinata, fin dalle sue origini nel XVII secolo, ad accompagnare i movimenti dei cortei militari. Un genere musicale che è stato poi utilizzato durante il trasporto del feretro per funerali dei reali e dei personaggi illustri e che, dalla prima metà del XIX secolo, ha avuto un notevole incremento, quando a cimentarsi in esso furono i più grandi musicisti del tempo come L. Van Beethoven e F. Chopin. In particolare, la Marcia funebre del terzo movimento della Sonata n. 2 op. 35 in si bemolle minore di Chopin è, ancora oggi, la più eseguita in tutto il mondo: un vero e proprio capolavoro di melodia e di espressività che ha costituito un modello seguito dai compositori successivi che hanno voluto cimentarsi con questo genere musicale”.

Il solitario canto funebre che caratterizza queste composizioni riesce, in maniera unica e senza eguali, a far meditare profondamente gli ascoltatori sul misterioso destino che spetta ad ogni uomo una volta terminata l’esperienza terrena, mettendo in luce lo strazio del distacco e la speranza della pace eterna. Per queste caratteristiche, le marce funebri costituiscono la colonna sonora del periodo quaresimale e, in particolar modo, dei Riti della Settimana Santa, indissolubilmente legati all’antica dominazione spagnola nell’Italia meridionale: “Impossibile oggi pensare al lento e grave incedere dei confratelli incappucciati durante le processioni senza pensare al suono, ora delicato e struggente, ora maestoso e raggelante, delle marce funebri eseguite dalle bande musicali cittadine”, continua il M° Solidoro “In tutto il Meridione d’Italia, i repertori bandistici hanno una base comune, costituta da celeberrime marce come quella di F. Chopin e quella di A. Vella, e una componente variabile, costituita da numerose composizioni di autori locali, sia del passato che contemporanei, che costituiscono un prezioso patrimonio identitario della specifica comunità di riferimento. Un bagaglio di cultura e di tradizione popolare dunque, vera e propria memoria storica di intere generazioni, che occorre custodire e valorizzare, in modo che venga tramandato intatto ai posteri.”

Lo stesso Luigi Solidoro è uno di quegli autori che hanno contribuito ad arricchire la tradizione musicale autoctona, iniziando giovanissimo a comporre marce funebri per la Settimana Santa gallipolina. Già nel lontano 2001 scrive Il pianto della Vergine per la processione del Venerdì Santo organizzata dalla Confraternita di Santa Maria degli Angeli e Mater Desolata per la processione del Sabato Santo, organizzata dalla Confraternita della Purità di Gallipoli. Successivamente, nel 2012 compone la marcia Cristo in croce per la processione dell’Urna realizzata dalla Confraternita del SS. Crocifisso e nel 2016 Presso la croceMarcia e Preghiera per il Venerdì Santo, per solista, coro a due voci miste e banda. Ricordiamo poi i due Oratori Sacri per la settimana santa Il dolore di Maria (2013) e Maria Desolata (2015), il primo su testo dello stesso Luigi Solidoro, il secondo su testo di Don Luciano Solidoro.

G. B.

Il culto all’Addolorata a Gallipoli

Pubblicato il 26 marzo 2021 sulla rivista culturale Il Pensiero Mediterraneo


È documentato che il particolare culto alla Vergine Addolorata ha avuto origine all’inizio dell’XI secolo radicandosi soprattutto a Firenze dove nel 1233 fu fondata la Compagnia di Maria Addolorata, detta anche dei Servi di Maria o dei Serviti, approvata, poi, da Roma nel 1645 con il titolo di Confraternita dei Sette dolori.

Caratterizzata dall’abito nero in memoria del lutto di Maria per la perdita del Figlio, con la celebrazione dei suoi 5 gaudi e dei suoi cinque dolori, diventati poi sette nel 1236, i Serviti, insieme ai Francescani, riuscirono in breve tempo a diffondere, non solo in Italia ma in tutta Europa, il culto all’Addolorata la cui celebrazione, inizialmente, era inserita nella Settimana Santa. Il 9 agosto 1692 Papa Innocenzo XII la posticipò alla terza domenica di settembre, mentre nel 1714 la Sacra Congregazione dei Riti la spostò al venerdì che precede la Domenica delle Palme, con l’approvazione del culto come Celebrazione dei Sette Dolori di Maria. Infine, nel 1750Filippo V di Spagna stabilì per tutto il suo regno che la festa doveva tenersi il 15 di Settembre, data confermata definitivamente da Papa Pio VII il 18 settembre 1814 e successivamente da Papa Pio X nel 1913, non più come Memoria dei Sette Dolori ma come Beata Vergine Maria Addolorata.

Tuttavia, permangono in molte parti d’Italia, come anche a Gallipoli, le celebrazioni nelle date antiche, ossia nel periodo quaresimale. Questo culto ebbe un’incredibile diffusione in tutti gli strati della popolazione e portò in breve tempo all’istituzione di numerose confraternite dedicate a Maria Addolorata e ai Sette dolori della Beata Vergine. Questa forma devozionale, grazie anche al contributo di San Bernardo e Sant’Anselmo, trovò terreno fertile nella composizione delle Laudi popolari medioevali ispirate proprio al pianto della Madonna ai piedi della Croce. Uno dei primi componimenti fu il Liber de passione Christi et dolore et planctu Matris eius di autore anonimo.

Strettamente legato al culto dell’Addolorata è da sempre lo Stabat Mater, componimento poetico medioevale in latino che, essendo una Sequenza (ovvero un canto responsoriale), veniva cantato o recitato durante la celebrazione eucaristica prima della proclamazione del Vangelo. La paternità è attribuita generalmente al Beato Jacopone da Todi, ma assegnato anche a San Gregorio MagnoInnocenzo IIIBernardo di Clairvaux e San Bonaventura. Sin dal XIV secolo quest’opera è stata una delle più amate espressioni della devozione religiosa popolare, divenendo l’emblema del culto per la Vergine Addolorata ed è stata utilizzata anche nel rito della Via Crucis e durante la processione del Venerdì Santo. Con la riforma del Concilio di Trento (1545 – 1563), convocato per reagire alla riforma protestante di Martin Lutero, vennero eliminate dalla liturgia quasi tutte le Sequenze, incluso lo Stabat; ma, l’attaccamento popolare a tale componimento, mai dimenticato dai fedeli, portò Benedetto XIII, nel 1727, a reintrodurlo nel Messale.

Dal punto di vista compositivo, il testo è composto da 20 brevi strofe costituite da due versi ottonari e da un verso senario sdrucciolo. Idealmente si può suddividere in due parti: la prima, che comincia con le parole Stabat Mater dolorosa, è una meditazione sulla sofferenza patita da Maria nell’assistere alla Crocifissione del Figlio; la seconda, che inizia con le parole Eja, Mater, fons amoris, è un’invocazione affinché Maria ci renda partecipi al suo dolore e alle pene patite da Gesù, nella speranza di condividere la gioia del Paradiso. La bellezza e l’intensità drammatica del testo hanno portato i più grandi musicisti di tutte le epoche a musicarlo, da A. Scarlatti a G.B. Pergolesi (composizione che gli fu commissionata nel 1736 dalla Confraternita di Santa Maria dei Sette Dolori a Napoli), da A. Vivaldi a F.J. Haydn, a L. Boccherini, A Salieri, G. Paisiello, G. Rossini, S. Mercadante, F. Schubert, G. Verdi, solo per citarne alcuni, creando opere di altissimo livello e ancora oggi, a distanza di secoli, eseguite.

Gallipoli, il culto per l’Addolorata è da sempre curato dall’antica Confraternita della Misericordia (sorta presumibilmente nel primo trentennio del XVI secolo); nel giorno della festa, venerdì che precede la Settimana Santa, dopo la celebrazione eucaristica di mezzogiorno presieduta dal Vescovo della Diocesi, la Confraternita è solita far eseguire lo Stabat Mater musicato per Voci soliste, Coro ed Orchestra dal maestro gallipolino Giovanni Monticchio (1852 – 1931) e che, ancora oggi, è molto caro a tutta la cittadinanza che ne attende l’esecuzione con fervida attesa. In verità, fonti storiche riportano già nel Settecento l’esecuzione a Gallipoli di Frottole sacre, ovvero composizioni strofiche con accompagnamento orchestrale derivanti proprio dalle Laudi medievali. Dai documenti conservati nell’archivio della Confraternita della Misericordia, infatti, emerge che nel 1752 fu eseguita una Frottola composta dal maestro gallipolino Nicola Caputi (1724 – 1794).

Molte sono state le composizioni che si sono alternate nei secoli in questo giorno solenne; nel 1942, infatti, lo storico e memorialista Ettore Vernole (1877 – 1957) scriveva: “Attualmente si conservano e si eseguono le Frottole superstiti alle dispersioni, cioè quelle di Ercole Panìco (1835 – 1891) e del Bianco (1859 – 1920), nonché lo Stabat del Panìco e quello assai gustato del Monticchio (1852 – 1931)”. Parlando dei testi poetici, poi, scriveva ancora: “Per le parti cantate nella Frottola gareggiarono con i versi i più appassionati poeti gallipolini, primi fra tutti i Coppola, anche il giudice Giovan Battista De Tomasi col titolo “Le lagrime dell’Addolorata” (cronache del Patitari, successori, pag. 82) e negli ultimi decenni Alberto Consiglio, la prof.ssa Caterina Coluccia, Don Luigi D’Amato e altri”.

Purtroppo, però, ad oggi sono giunte a noi solo quattro composizioni: “Mira, oh fedel!” di Vincenzo Alemanno (1875) conservata presso l’archivio storico della Confraternita delle Anime del Purgatorio, “Ahi, sventura!” (non è chiaro se del 1884 o del 1886), “L’han confitto!” (1893) e “Una turba di gente” (1899) di Francesco Luigi Bianco, conservate presso l’archivio storico della Confraternita del Monte Carmelo e della Misericordia che ne organizza l’esecuzione annualmente, in alternanza con lo Stabat Mater del Monticchio.
Risulta, quindi, alquanto singolare il fatto che si sia dispersa proprio la composizione del Panico che, secondo il Vernole, era la più gradita al pubblico; infatti, successivamente, parlando di questo musicista, specifica: “Le composizioni musicali di Ercolino furono innumerevoli […] son conservate e ancora desideratissime ed eseguite le composizioni di alcuni Inni a Santi, di un Inno per il Venerdì Santo, e la più bella delle Frottole che ancor oggi si gusta. Questa ultima gli fu chiesta e pagata con molto anticipo […] e fu composta [dal Panìco] in una sola notte”.

A ben vedere, di tale composizione si trova riscontro negli Annali della Confraternita, e precisamente in un verbale riguardante i festeggiamenti per l’Addolorata del 1882, dove, confermando la tesi del Vernole, si legge: “… giunta la processione in Sant’Agata si cantò la Frottola, musica fatta in questo anno dal m° Ercole Panìco, il quale ha ricevuto perciò il pubblico applauso. In tutte le tappe della processione si cantò la Frottola ed il pubblico si accalcava in ogni chiesa per sentire la tanto piacevole musica”. Purtroppo, però, di tale spartito si sono perse le tracce. La speranza di chi scrive è da anni quella di riuscire, prima o poi, a ritrovarlo e a godere di nuovo di tale bellezza.

Luigi Solidoro

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