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Pietro Mascagni e la musica dimenticata

Pubblicato il 21 maggio 2021 sulla rivista culturale Il pensiero mediterraneo


Se fosse vissuto nella nostra epoca sicuramente Mascagni sarebbe stato un richiestissimo opinionista conteso dalle trasmissioni di punta delle più importanti emittenti televisive nazionali e internazionali. Sì, perché, oltre ad essere uno dei più grandi musicisti italiani della storia, Pietro Mascagni è stato un vero divo, capace di infiammare gli animi del pubblico dei più importanti teatri del mondo e popolarissimo anche negli ambienti estranei alla musica.

La sua fama fu talmente grande ed il suo carisma talmente forte da riuscire involontariamente a condizionare per decenni la moda: chi vestiva bene doveva vestire come lui; avere una bella pettinatura significava avere un bel ciuffo alla Mascagni, espressione che viene utilizzata ancora oggi; anche l’usanza di portare barba e baffi, molto in voga in quegli anni, fu sostituita da quella di portare il viso sbarbato e privo di peluria come usava Mascagni. In altre parole, egli fu un’icona di stile, quello che oggi chiameremmo un influencer, seguito ed emulato da milioni di followers sparsi in tutto il mondo.

Figlio di un fornaio, nacque a Livorno nel 1863 e già all’età di dieci anni rimase orfano di madre. Nel maggio del 1882 riuscì a partire per Milano grazie all’aiuto economico del conte Florestano de Larderel e nell’ottobre successivo superò l’esame d’ammissione al Conservatorio della città divenendo allievo del compositore A. Ponchielli; in quest’occasione incontrò Giacomo Puccini con il quale strinse una forte e sincera amicizia. Dotato di un carattere ribelle, nel 1885, dopo un turbolento e polemico colloquio con il Direttore del Conservatorio per via delle sue numerose assenze dalle lezioni, decise di abbandonare gli studi rinunciando al conseguimento del titolo. Le ristrettezze economiche lo portarono ad accettare l’incarico di direttore d’orchestra in varie compagnie d’operetta iniziando a viaggiare in tutte le città più importanti d’Italia.

Nel 1887 arrivò a Cerignola, in Puglia, e, stanco della vita da girovago e della condizione di precarietà economica, decise di accettare l’offerta del Sindaco di fondare e dirigere una Scuola di Musica comunale con annessa Filarmonica. Qui ebbe il suo primogenito con Lina Carbognani (1862-1946) che, però, morì ancora infante dopo pochi mesi; nel febbraio dell’anno successivo la coppia si sposò e negli anni a venire ebbero tre figli.

Nel 1889, stando sempre a Cerignola, decise di partecipare al Concorso indetto dalla Casa Editrice Sonzogno di Milano e, in pochi mesi, compose Cavalleria rusticana, opera in un atto unico tratta da una novella di Giovanni Verga. Preso, però, dall’incertezza e dallo sconforto decise di non parteciparvi più; nell’ultimo giorno utile, la moglie Lina, a sua insaputa, spedì lo spartito iscrivendo ufficialmente l’opera al Concorso Sonzogno. Nel marzo del 1890 la giuria comunicò i vincitori: su ben 73 opere presentate, Cavalleria rusticana fu proclamata vincitrice tra lo stupore e l’incredulità dell’autore.

Rappresentata al prestigioso Teatro Costanzi di Roma nel maggio successivo, l’opera ebbe un clamoroso trionfo e, considerata il primo grande capolavoro verista, nel giro di pochi mesi venne rappresentata nei maggiori teatri d’Italia e d’Europa. Nasceva il mito di Pietro Mascagni! Egli cominciò a ricevere inviti e onorificenze da tutto il mondo: l’Imperatore Guglielmo II lo convocò a Berlino; persino la Regina Vittoria, in Inghilterra, nell’estate del 1893, volle fortemente conoscerlo di persona e gli chiese di dirigere Cavalleria rusticana nel Castello di Windsor nonostante fosse già stata eseguita due anni prima.

I mezzi economici ottenuti gli consentirono di abbandonare l’impiego di Cerignola e di dedicarsi esclusivamente alla composizione e alla direzione d’orchestra. Dalle sue opere emergeva un grande talento naturale, una fervida immaginazione sonora ed un notevole temperamento. Anche se talvolta l’armonia poteva sembrare poco ricercata o l’orchestrazione apparire a tratti superficiale, le sue composizioni brillavano per le molteplici idee musicali, per l’ardore e la prorompente musicalità: caratteristiche, queste, che gli consentirono di giungere al cuore del pubblico in maniera diretta ed immediata. Inoltre, l’utilizzo di una scrittura musicale impervia e abbondante di difficoltà tecniche gli fece guadagnare, tra i cantanti d’opera, il simpatico appellativo di compositore spacca voci.

Non volendo essere catalogato solo come compositore verista, in continua scommessa con sé stesso, spaziò dal crepuscolarismo, al decadentismo, al simbolismo, e nel giro di pochi anni riuscì a comporre un elevato numero di melodrammi ricchi di vibrante passionalità, forza drammatica, grande lirismo e calda sensualità.

Come direttore d’orchestra tenne numerose tournée in Europa e nelle Americhe, dirigendo le sue opere ma anche quelle dei suoi amici e colleghi contemporanei, oltre ai grandi capolavori della storia. Ogni sua esibizione era un vero e proprioevento capace di incantare e di esaltare gli animi dei presenti; ed il pubblico, a sua volta, rispondeva con le cosiddette tempeste mascagnane: vere e proprie ovazioni accompagnate da lunghi e scroscianti applausi uniti al lancio di fiori e ad urla di approvazione.

Spontaneo ed immediato, turbolento e, ovviamente, poco incline alla diplomazia, Mascagni seppe conquistarsi una grande notorietà internazionale e divenne un fenomeno della sua epoca, un vero e proprio mito vivente. Nel corso della sua lunga carriera ebbe anche delle rovinose cadute, come con l’opera Le maschere che il 17 gennaio 1901 andò in scena contemporaneamente in sei teatri italiani registrando ovunque un fiasco totale, tranne a Roma sotto la sua direzione. Ma seppe rialzarsi e ripartire senza indugi come solo i grandi sanno fare!

Negli anni del Fascismo i governanti italiani non si fecero sfuggire l’occasione di sfruttare la sua notorietà per una sana propaganda internazionale, affidandogli compiti istituzionali di rappresentanza dell’Italia nel mondo. Nel 1929 ricevette l’ambita nomina di Accademico d’Italia insieme a Gabriele D’AnnunzioGuglielmo MarconiLuigi PirandelloEnrico Fermi e tanti altri intellettuali, tra cui i compositori don Lorenzo Perosi e Umberto Giordano (il quale nel ’39 compose le musiche di scena del Cesare, dramma in stile encomiastico scritto da Giovacchino Forzano con la collaborazione di Benito Mussolini).
Nel 1932 Mascagni, in linea con i tempi, si iscrisse al Partito fascista ma ebbe sempre un rapporto problematico con il regime, mostrandosi contrario alla “stupida guerra”, ma soprattutto facendogli una cattiva propaganda con la composizione della sua ultima opera lirica, Nerone, nel 1935, e mantenendo un rapporto distaccato con i gerarchi fascisti che, per questo, non lo guardavano di buon occhio.

Purtroppo, dopo la sua morte, avvenuta in contemporanea con la fine della Seconda Guerra mondiale, nell’ottica di cancellare tutto ciò che era appartenuto al regime e quasi come punizione per la sua adesione al partito fascista, le sue opere, eccetto Cavalleria rusticana, furono in gran parte occultate e sminuite dalla critica forse con l’intento di farle dimenticare.

Ancora oggi, in riferimento al solo melodramma, sono davvero in pochi coloro che conoscono quei capolavori come il Preludio o il duetto d’amore del terzo atto dell’opera I Rantzau, la stupenda Barcarola di Silvano, il meraviglioso Intermezzo sinfonico del Guglielmo Ratcliff, l’amoroso duetto delle ciliegie de L’amico Fritz, la maestosità dell’Inno del Sole di Iris utilizzato, tra l’altro, come inno ufficiale delle Olimpiadi di Roma del 1960; giusto per citare solo alcune pregevoli pagine e tralasciando la vasta produzione cameristica, sia vocale che strumentale, anche quella purtroppo poco valorizzata.

Pietro Mascagni morì il 2 agosto 1945 a Roma: il Governo inglese trasmise un messaggio di cordoglio al governo italiano, il comando francese fece ammainare la bandiera a mezz’asta all’Hotel Plaza (luogo della morte e sua residenza stabile dal 1927), il Papa Pio XII inviò un suo rappresentante, la radio di Mosca mandò in onda musiche mascagnane per tutto il giorno, in tutto il mondo Mascagni fu ricordato con grande rispetto. Il Governo italiano, invece, non partecipò neanche ai funerali ai quali accorse una miriade di persone. La gravità dell’episodio fece insorgere persino il mite e silenzioso Umberto Giordano, il quale lo definì una “Vergogna”.

Col passare dei decenni la situazione è rimasta invariata. Motivi ideologici non ancora superati e difficoltà tecniche di esecuzione hanno determinato la scomparsa delle opere di Pietro Mascagni dalle stagioni operistiche e teatrali, producendo un grande impoverimento culturale che credo sia giunto il momento di superare definitivamente, riscattando dall’immeritato oblio la quasi totalità delle composizioni di uno dei maggiori rappresentanti della cultura italiana ed europea del ‘900.

Luigi Solidoro

L’uomo Beethoven

Pubblicato il 31 gennaio 2021 sulla rivista culturale Il pensiero mediterraneo


Il 17 dicembre scorso, nel giorno del suo battesimo, in tutto il mondo si è festeggiato il 250esimo anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven, compositore che rappresenta un pilastro fondamentale nella Storia della musica.

Egli fu un grande innovatore nella forma e nel sentimento, completando ed esaurendo il Classicismo, preparando il Romanticismo e donando alla musica una buona dose di sperimentalismo che la condurrà alla crisi estetica manifestata successivamente da BerliozWagner e Schoenberg. La forzatura che attuò nelle forme classiche non fu mirata ad un’innovazione fine a sé stessa, ma rappresentò una vera e propria esigenza derivante dalla voglia di comunicare stati d’animo interiori ed eventi mai descritti in musica prima d’allora. Egli con le sue opere esternò la più grande carica e varietà di emozioni, solcando i mari dell’ira incalzante, dell’umore litigioso, dell’esaltazione, della tenerezza e dell’angoscia profonda.

In Beethoven, il confine tra pazzia e genialità in preda all’ispirazione non è stato sempre facile da identificare. Osservando i suoi modi burberi, le sue rudi abitudini (si raccontava che camminasse frettolosamente per strada di notte andando avanti e indietro, agitando le braccia, brontolando e parlando tra sé e sé) ed i suoi frequenti attacchi d’ira bestiale, è comprensibile immaginare come sia stato difficile per i suoi contemporanei accettare l’idea che tale “individuo” potesse scrivere musica di così alta bellezza e profondità spirituale.

Nelle sue composizioni, alla forza bruta che urlava la sua collera al mondo si contrapponeva lo spirito innocente di fanciullesca dolcezza; una parte di lui era quasi insensibile, egoista, arrogante a tal punto che la sua famiglia lo soprannominava “dragone”; un’altra parte, invece, era timida, innocente, generosa, amorevole, nobile. Vien da pensare che sicuramente angelo e demone agirono in lui contemporaneamente per creare uno dei più grandi geni musicali della storia dell’umanità. Era anticonvenzionale, presuntuosamente moralista, fortemente indipendente e visse la sua vita al limite della pazzia che solo nell’arte, attraverso un durissimo lavoro, riuscì a trovare ordine e pace.

Crebbe triste e solitario in una famiglia povera, con un padre austero, severo e dedito all’alcool, ed una madre gentile ma depressa; da piccolo il suo unico svago fu il clavicembalo e suo padre, avendo intuito il suo talento, cercò di trarne guadagno esponendolo sul mercato musicale come una vera e propria merce da vendere, proponendolo come bambino prodigio e obbligandolo a studiare anche di notte. Questi terribili sforzi consumarono la sua gioventù ma, al tempo stesso, forgiarono in lui un carattere di ferro, facendolo giungere alla convinzione che nella vita bisognasse soffrire per poter ottenere qualcosa. Fu perennemente innamorato, anche in modo estremo, ma quasi sicuramente solo in maniera platonica.

Trasferitosi a Vienna nel novembre del 1792, quasi ventiduenne, nel giro di pochissimo tempo Beethoven divenne concertista di pianoforte assai applaudito e, per così dire, alla moda, infiammando quel pubblico abituato ad ascoltare l’eccellente musica degli illustri J. Haydn (che per un breve periodo fu suo maestro) e W. A. Mozart, morto proprio l’anno prima. Nel giro di poche settimane la sua irresistibile veemenza pianistica gli aprì le porte dei più ambìti palazzi nobiliari viennesi: si diceva che nessun esecutore avesse mai avuto tale forza e così tanta immaginazione.

Vi era qualcosa di meraviglioso e sublime nel suo modo di suonare che andava ben oltre la bellezza e l’originalità; si narra che una sera fece un’esecuzione talmente commovente che gli spettatori scoppiarono in lacrime. Abbandonò presto le consuete forme musicali che imprigionavano il suo estro per ricercare e sperimentare forme nuove e sempre più ampie. Le sue composizioni, infatti, cominciarono ad avere sempre più vigore, fantasia, eccitazione; ricercava un suono talmente pieno e forte da far tremare i lampadari presenti nei grandi saloni nobiliari; questo, però, faceva storcere il naso a molti critici musicali e a quei musicisti spaventati da tanta impetuosità.

La sua determinazione non gli diede un’immediata gratificazione, ma lo portò al successo. Contrariamente alla tradizione, che testimonia l’indigenza di quasi tutti gli artisti, non visse in povertà ma fu prosperoso e per un certo periodo ebbe anche la servitù. Il suo impegno era costante e trascorreva le giornate ad impartire lezioni di pianoforte, dirigere orchestre, assistere alle prove, litigare con i suoi editori, mantenere una fitta corrispondenza, leggere testi di filosofia, tenere contatti con gli amici, scontrarsi continuamente con i suoi mecenati ed andare continuamente a caccia di donne.

Ben presto, però, cominciò ad avere il più tragico dei problemi per un musicista: un fastidio all’orecchio sinistro che, pochi anni dopo, comprometterà totalmente il suo udito. Inizialmente ebbe difficoltà ad udire i suoni acuti, poi cominciò a sentire continuamente ronzii e dolori; questo problema cominciò quando aveva ventisei anni e, poco alla volta, la perdita fu irrimediabile e definitiva. I medici non gli furono di grande aiuto, ritenendo che non vi fosse nulla da fare. Beethoven si sentì quasi mutilato, sminuito e, vergognandosi profondamente, fece di tutto per nascondere la sua disabilità. La sua attività di pianista ne risentì tantissimo e visse sempre nell’incubo di poter perdere anche la capacità di comporre.

Fu così che nell’autunno del 1802, quasi vicino al suicidio, si trasferì temporaneamente in un piccolo villaggio vicino a Vienna chiamato Heiligenstadt, per allontanarsi dai rumori della città e dalle continue relazioni sociali che essa imponeva. Qui scrisse un’accorata lettera indirizzata ai suoi due fratelli, mai spedita, che prese il nome di Testamento di Heiligenstadt e dalla quale si può comprendere lo stato d’animo del sommo compositore:

“Oh, voi uomini che mi considerate litigioso, permaloso o misantropo, come male mi avete giudicato. Voi non conoscete la ragione segreta. Obbligato ad accettare la prospettiva di una infermità permanente, ho dovuto immediatamente escludermi dalla vita e vivere in solitudine. Per me non ci possono essere relazioni sociali ed umane, conversazioni e reciproche confidenze. Quando sono in compagnia sono assalito da una grande ansietà per la paura di poter rivelare la mia condizione. Che umiliazione quando qualcuno che è di fianco a me può sentire un flauto lontano, mentre io non riesco a sentire proprio nulla. Queste esperienze mi hanno portato vicino alla disperazione e sono giunto sul punto di porre termine a questa vita. Solo la mia arte mi trattiene dato che mi sembra impossibile lasciare questo mondo prima di aver composto e prodotto tutto ciò che mi sento di dover realizzare.”

Nel 1814 fu costretto ad abbandonare definitivamente la sua carriera di pianista e di direttore e nel 1818 si poteva comunicare con lui solo tramite i famosi quaderni di conversazione. Essere sordo per un musicista è come essere cieco per un pittore e sembrava una disabilità destinata a impedire l’atto compositivo. Ma, racchiuso in sé stesso, Beethoven affrontò la sua malattia con una esplosione interiore di creatività: passava tutto il suo tempo a comporre, la sua frenesia immaginifica si intensificò e le idee musicali gli attraversavano la mente come sciami e, quando veniva il momento di scriverle, le analizzava e le riguardava con stizzosa frenesia ed estrema accuratezza, cancellando e riscrivendo un passaggio decine di volte prima di raggiungere la stesura finale.

In una conversazione con un amico ritroviamo la descrizione del processo creativo descritto dallo stesso Beethoven: 

“Non posso dire da dove vengono le mie idee. Mi giungono improvvise direttamente ed indirettamente. Riesco quasi a prenderle tra le mani. Sono risvegliate dagli stati d’animo e tramutate in toni e suoni, rombano e infuriano fino a quando per me prendono forma di note… (omissis) … Dal fuoco dell’entusiasmo devo liberare la melodia in tutte le sue direzioni. La inseguo, la catturo ancora. La vedo volare via e sparire. La intravedo nuovamente. Sono costretto a moltiplicarla e alla lunga la conquisto… (omissis) … L’idea di base non mi lascia mai. Sorge, cresce verso l’alto e io posso vedere e sentire la figura mentre il tutto prende forma e si fonde in un’unità. Tutto quello che devo fare successivamente è trascrivere”.

Nonostante la sua sordità, il senso del suono era chiarissimo e, con l’aiuto del cosiddetto orecchio musicale interno che aveva sviluppato negli anni precedenti, Beethoven immaginava toni e note e riuscì a comporre un’immensità di opere che aprirono la strada ad un nuovo modo di concepire la musica: opere monumentali, sinfonie titaniche, creazioni profonde e di altissimo valore. Molti critici hanno addirittura ipotizzato che nelle sue ultime composizioni parlasse con Dio.

In questo anno segnato dalla pandemia, in cui le norme per limitare il contagio hanno imposto la chiusura dei teatri e la sospensione della musica dal vivo, ognuno di noi ha potuto vivere, seppur in minima parte, quella dimensione beethoveniana, assaporandone l’enorme difficoltà del “silenzio forzato” e dell’isolamento sociale.

Pertanto, proprio in questo momento storico, la lezione impartitaci dall’uomo Beethoven diventa quanto mai preziosa, ricordando all’intera umanità che durante le più grandi tragedie, l’essere umano solo dentro di sé può trovare quell’energia e quello slancio capaci di fargli superare anche le più grandi avversità.

Luigi Solidoro

La Musica Liturgica oggi tra approssimazione e dilettantismo

Pubblicato sulla rivista culturale Anxanews, n.97 – gennaio/febbraio 2019, pagg. 25-26

Accade molto spesso di partecipate alla Messa domenicale o alla Celebrazione Liturgica in ricorrenza di una festività religiosa e di provare un profondo disagio ascoltando la musica che viene eseguita.

Per dirla con le parole del maestro Riccardo Muti: “ La Chiesa ha determinato la storia della grande musica, e quando in Chiesa si ascoltano quattro strimpellate di chitarra o canti approssimativamente intonati, con parole insipide e senza senso, accompagnati da organisti che non riescono a suonare in maniera “pulita”, credo che sia un insulto! Questa è mancanza di rispetto all’intelligenza delle persone”.

Ma, oltre al maestro Muti, molti illustri musicisti e musicologi hanno finora affrontato questo problema che, come afferma don Antonio Parisi (autore di innumerevoli brani liturgici eseguiti in tutta Italia), vede schierati tradizionalisti contro innovatori, diplomati contro dilettanti, organo contro chitarra, coro e assemblea in perenne conflitto, canto gregoriano e polifonico contro musica popolare, musica “ritmica giovanile” contro musica tradizionale e via di questo passo.

Anche dalle nostre parti questo fenomeno è alquanto rilevante; ci si trova di frequente, infatti, ad assistere ad esecuzioni musicali molto discutibili, che non invitano alla preghiera o alla meditazione, e che sono lontane anni luce dal loro scopo principale che dovrebbe essere quello di parlare al cuore e di innalzare lo spirito dell’ascoltatore verso Dio.

Vengono, sovente, dimenticati quei principi ispiratori dell’autentica bellezza evocati da Papa Benedetto XVI, o, come afferma Mons. Valentino Miserachs Grau: “… si è arrivati ad un’anarchica proliferazione dei più disparati esperimenti musicali che hanno introdotto un cumulo di banalità mutuate dalla musica leggera di consumo o di altri stravaganti prodotti esotici, dimenticando quanto aveva detto Paolo VI, nel 1968, rivolgendosi ai partecipanti del Congresso Nazionale dell’AISC (Associazione Nazionale di Santa Cecilia): Non tutto ciò che è fuori del Tempio è atto a superare la soglia”.

Sicuramente la causa di questa deriva artistica e spirituale è da ricercare nella mancanza di attenzione alla tutela estetica della Musica Liturgica (destinata, cioè, alla Liturgia).

Non si può non rilevare, purtroppo, l’inadeguata preparazione musicale di coloro che spesso vengono individuati quali responsabili dell’animazione musicale della propria comunità, un tempo Maestri di Cappella del calibro di J.S. Bach, G.F. Handel, J. Haydn, G. Donizetti, L. Perosi etc… solo per citarne alcuni.

Nelle realtà parrocchiali ci si trova di fronte, da un lato, a veri e propri dilettanti volontari che, rendendo un servizio prezioso alle loro comunità, eseguono canzonette in stile pop o melodie simili a stornelli; dall’altro, a musicisti diplomati, si, in Conservatorio, ma digiuni delle competenze specifiche che, pur di far vedere le loro abilità sull’organo, eseguono brani della tradizione liturgica “arricchiti”, per così dire, dall’aggiunta di accordi dissonanti, trilli, acciaccature, arpeggi, scale diatoniche, cromatiche ed ogni altro tipo di ornamento del tutto fuori luogo, stilisticamente inadeguato e che denota un cattivo gusto nell’esecutore.

Queste bizzarre scelte musicali portano all’ascolto di un armonioso fracasso che nulla ha in comune con quello che dovrebbe, invece, esaltare lo spirito e rispettare la sacralità del luogo.

La vanità di questi pseudo – musicisti, desiderosi di momenti di notorietà, dovrebbe esercitarsi in altri momenti e non in luoghi sacri; questi, purtroppo, hanno una visione totalmente deforme del compito che gli è affidato, in netto contrasto e totalmente inconciliabile con quello che dovrebbe essere l’Arte della Musica Liturgica.

Anche Papa Giovanni Paolo II affronta il medesimo argomento scrivendo, in data 2 febbraio 1994, a monsignor Domenico Bartolucci (direttore della Cappella Musicale Pontificia) in occasione del quarto centenario della morte del grande Pierluigi da Palestrina: “ Oggi, come ieri, i musicisti, i compositori, i cantori delle Cappelle liturgiche, gli organisti e gli strumentisti di chiesa devono avvertire la necessità di una seria e rigorosa formazione professionale. Soprattutto dovranno essere consapevoli che ogni loro creazione o interpretazione non si sottrae all’esigenza di essere opera ispirata, corretta, attenta alla dignità estetica, sì da trasformarsi in preghiera orante”.

Dello stesso tono, qualche anno dopo, l’affermazione di don Guido Genero: “… gli organisti (e, in genere, i musicisti che suonano nelle celebrazioni liturgiche) si impegnino per una vera formazione liturgica, basata sulla comprensione specialistica dell’azione celebrativa cattolica e delle sue ragioni. E’ evidente che, senza un chiaro riferimento al sentire tipicamente ecclesiale intorno alla liturgia come esperienza religiosa, non sia possibile un esercizio credibile e proficuo di questo ruolo musicale”.

Un altro aspetto molto importante riguarda le forme musicali che dovrebbero adottare i compositori di tale musica. Queste vanno adeguate e pensate secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II (1962-1965), secondo il quale, nel capitolo VI, l’Assemblea orante non deve fungere solo da spettatore, come succede in teatro, ma deve avere la possibilità di interagire con il coro perché parte attiva dell’azione liturgica. Sono bandite, quindi, le figure di quei cantori solisti che si esibiscono, in maniera pedante e a volte anche discutibile, dall’inizio alla fine della liturgia, quasi come in un recital lirico.

A tal proposito, sempre Papa Giovanni Paolo II affermava: “Sono da conservare e promuovere lo studio e la pratica della musica e del canto in quegli ambiti e con quegli strumenti che il Concilio Vaticano II ha indicato come privilegiati: il canto gregoriano, la polifonia sacra e l’organo. Solo cosi la Musica Liturgica potrà assolvere degnamente il suo compito nel contesto della celebrazione dei Sacramenti e, in modo speciale, della Santa Messa”.

Si comprende bene, quindi, l’assoluta insensibilità, etica ma anche religiosa, e la scarsa preparazione che si ritrova, purtroppo, anche nelle produzioni di taluni compositori del nostro tempo che, ignorando la contestualizzazione e la funzione delle loro opere musicali, elaborano composizioni miscelando stili musicali vari, armonie jazzistiche, ritmi di valzer, di tango, atmosfere da film dell’orrore, dettati dal tentativo di fare altro e dalla voglia di essere innovativi. Inoltre, con il galoppante sviluppo della tecnologia e l’avvento di software di scrittura musicale e composizione (dove è il pc a suggerire quali note scrivere sul pentagramma), si è giunti ad una moltitudine di compositori, o sedicenti tali, che, senza l’aiuto di questi programmi tecnologici, mai avrebbero potuto creare un brano musicale. Molta “musica” che si scrive oggi, infatti, ignora, non dico la grammatica musicale, ma perfino l’abbecedario dell’arte musicale. Una degenerazione simile a quella attuale nella storia della musica sacra e liturgica non si è mai verificata. Per meglio comprendere la portata del problema, basta pensare che oggi, grazie a questi ausili informatici, anche chi non è in grado di ascoltare le note che scrive può “diventare compositore”. (A tal proposito, è bene precisare che L.V. Beethoven -1770/1827 – non era sordo; il grande genio di Bonn era affetto da ipoacusia, cioè l’indebolimento graduale dell’apparato uditivo, che lo portò alla sordità totale nel 1820, cioè pochi anni prima della molte. Quindi, per quasi tutta la sua esistenza, anche se in maniera difettosa, il suo udito era funzionante).

Ecco perché oggi ci si trova di fronte a prodotti musicali dove è assente quella sublime concezione, quell’aura di solennità e di sacralità che dovrebbe contraddistinguere la vera Musica Liturgica.

Quando si fanno queste osservazioni ai diretti interessati, si riceve quasi sempre la stessa risposta: “non capite la mia musica” oppure “non avete la giusta preparazione per comprendere la mia arte”.

Niente di più sbagliato! Solitamente dietro queste affermazioni si nascondono solo coloro che non riescono ad assolvere al compito principale dell’arte sacra per eccellenza, quello, cioè, del parlare di Dio e di innalzare verso l’alto lo spirito dell’ascoltatore orante.

Questa voglia di trasgressione delle regole e dei gusti convenzionali porta solo tanta confusione, dimenticando che, anche adottando un tipo di scrittura musicale moderna, una composizione musicale, soprattutto se liturgica o di argomento sacro, deve “in primis” emozionare l’ascoltatore ed essere sempre orientata verso il bello e, quindi, verso Dio.

Luigi Solidoro

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