Le composizioni musicali dedicate a Santa Cristina, Patrona secondaria della Città di Gallipoli

Pubblicato sulla rivista culturale Anxanews, n.100 – luglio/agosto 2019, pagg. 33-34;

e con aggiunte, sulla rivista culturale on line Il pensiero mediterraneo, del 23 luglio 2022.


Le composizioni musicali gallipoline dedicate alla patrona Santa Cristina consistono in tre Inni Sacri composti da altrettanti compositori locali.

L’Inno è un componimento poetico – musicale caratterizzato da una struttura strofica e destinato alle celebrazioni religiose; viene infatti cantato da un coro e accompagnato dall’organo o, molto spesso, strumentato per banda musicale per essere eseguito durante la processione.

La canzone e preghiera per Santa Cristina L’aurora di Tiro di Vincenzo Alemanno è stata musicata nel 1868 ed è composta da quattro strofe che seguono lo schema formale A B B A, dove la sezione A è in tempo 3/4 ed in tonalità di Lab Maggiore, mentre la sezione B è in tempo 4/4 ed in tonalità di Mib Maggiore con una chiusura in tempo di 6/8, dove la prima è solo strumentale, mentre nella seconda (B) si aggiunge anche il canto.

La musica è in perfetto stile ottocentesco, melodiosa e scorrevole; con eleganza e forte slancio romantico, l’autore ha saputo splendidamente interpretare il clima spirituale e culturale della Gallipoli del secondo ottocento. Inoltre, considerando che il Patrocinio di Santa Cristina a Gallipoli risale al 1867, questa composizione ha una grande importanza storica: quella, cioè, di essere il più antico Inno Sacro gallipolino ad oggi pervenuto, nonché il precursore di tutte le composizioni sacre cittadine successive che a questo hanno guardato.

Attualmente di questa composizione sopravvivono due manoscritti originali per canto e pianoforte, conservati l’uno nel Fondo Vernole della Biblioteca Comunale di Gallipoli, l’altro dal sottoscritto, ereditato da un fondo privato.

Sempre nel Fondo Vernole sono conservate anche le parti strumentali (le c.d. parti staccate per banda) utilizzate dalla banda musicale gallipolina dell’epoca diretta dal maestro Ercole Panico.

All’indomani della morte del Ercole Panico, avvenuta nel 1891, Gallipoli affidò la sua banda a diversi maestri di musica: prima Antonio Puzzone, il quale cercò di rinsaldare le fila dei resti della banda del Panico, e poi anche Raffaele De Somma, con la c.d. “Banda del popolo”, e Prisciano Martucci da Cerignola, con la c.d. “Banda Municipale”, ma anche il celebre Francesco Luigi Bianco, che accettò quest’incarico dopo molte insistenze.

Vennero così composti gli altri due Inni Sacri dedicati a Santa Cristina, uno del maestro Raffaele de Somma e l’altro del maestro Francesco Luigi Bianco. Le motivazioni che hanno spinto i due maestri a scrivere tale musica vanno cercate, quindi, non solo nella fede verso la Santa Patrona, ma soprattutto nella necessità di avere materiale musicale da poter eseguire durante la processione o la festa. Bisogna pensare, infatti, che in quel periodo era difficilissimo acquistare o reperire spartiti musicali, soprattutto quelli destinati alla banda, né tantomeno esisteva il web dove poter reperire qualsiasi tipo di musica con un semplice click. I direttori di banda, infatti, erano costretti a comporre musica originale utilizzando i versi di poeti locali per poter svolgere quei servizi musicali affidati al loro complesso strumentale a seconda delle esigenze celebrative che si presentavano di volta in volta.

L’Inno Giglio ridente e candido composto dal maestro Raffaele De Somma ha la prima strofa in tonalità di Reb Maggiore ed in tempo di 2/4 (con una lunga introduzione strumentale di 36 battute), la seconda strofa in tempo di 3/4, sempre in Reb Maggiore, ed una Preghiera finale in tempo 2/4 in tonalità di Lab Maggiore (con un’introduzione di 15 battute). Il testo poetico è del sacerdote Francesco Magno e sul frontespizio della partitura originale, di proprietà della Confraternita della Purità di Gallipoli) si legge: “Gallipoli,1909 – Fano, 1926. Dono dell’autore”.

L’inno presenta una scrittura musicale moderna, quasi difficile ad essere apprezzata al primo ascolto, che risente dello stile espressionista che si andava affermando in quegli anni in Italia, con l’abbandono degli schemi armonici e melodici tipici del secolo romantico appena trascorso. Le inusuali scelte armoniche attuate, infatti, lasciano intravedere la volontà del maestro di produrre qualcosa che fosse nuovo e mai ascoltato prima, in linea con le produzioni musicali dei grandi musicisti dell’epoca.

Su un piano decisamente opposto si colloca, invece, l’Inno del maestro Francesco Luigi Bianco, Salve, celeste Martire, che rimane saldamente ancorato agli schemi melodici e armonici ottocenteschi. È scritto in tonalità di Fa Maggiore ed in tempo 4/4 e reca un’introduzione in terzine di 15 battute che viene utilizzata in forma ridotta come intermezzo tra le varie strofe.

Come detto precedentemente, l’Inno è una composizione strofica, caratterizzata, quindi, dall’assenza di un ritornello (quella parte, cioè, della composizione che viene ripetuta in alternanza alle strofe e che risulta particolarmente orecchiabile). Il maestro Bianco, invece, che per natura possedeva il cosiddetto dono della melodia, pur di creare qualcosa che rimanesse scolpito nell’orecchio dell’ascoltatore e dei fedeli, come era suo solito, utilizza i primi due versi della prima strofa del testo poetico (“Salve, celeste Martire/diletta del Signor”) e, con la genialità compositiva che lo contraddistingueva, riesce a creare un ritornello che si inserisce nel finale di ogni strofa senza, però, alterare la struttura formale dell’intero testo.

La Confraternita della Purità di Gallipoli possiede più arrangiamenti per banda di questo brano, arrangiamenti che riportano tante piccole varianti rispetto all’originale; la versione presa in analisi dal sottoscritto è quella autografa, che era sicuramente una prima stesura o una brutta copia poiché presenta delle cancellazioni, e la grafia appare disordinata, come se fosse stata scritta in velocità dal copista di fiducia del maestro. Sul retro dell’ultima pagina questo spartito presenta una dicitura scritta da un altro musicista dilettante gallipolino del XX secolo, Michele Pagani, che riporto fedelmente: “28/10/42 Ritrovato nelle carte buttate del Professor Bianchi. Concede alla Chiesa della Purità”, dove il cognome Bianco viene erroneamente mutato in Bianchi.

La spontaneità musicale e la bellezza della linea melodica, semplice e mai banale, fanno di questo brano una vera e propria opera d’arte, un’autentica pietra miliare che si va ad incastonare nel vasto repertorio musicale sacro che la città di Gallipoli possiede e che la rendono unica ed invidiabile.

Per completezza di esposizione, si precisa che un altro compositore gallipolino, Alceste Citta, secondo quanto riportato da un articolo del giornale Spartaco nel Luglio del 1898, compose un Inno alla Santa di Bolsena, scritto per voce di fanciulli e dedicato ad Antonietta Barba, figlia del famoso professore; composizione purtroppo andata perduta.

Inoltre, degne di menzione sono le due composizioni del compianto Andrea Casole, anche lui gallipolino, giovane e appassionato compositore di numerosi brani di musica liturgica che ci ha lasciati troppo presto: la preghiera che la Santa rivolge a Dio durante il martirio (trattasi di una Antifona post Communio il cui testo è tratto dal Martirologio della Santa), nonché la commovente invocazione Salve, dolce Cristina cantata dai devoti per ottenere la sua intercessione dinanzi al trono celeste.

Luigi Solidoro

Risorgimento e Musica: Michele Panico da Neviano e il ruolo delle fanfare in Terra d’Otranto

Pubblicato il 12 dicembre 2020 sulla rivista culturale on line Il pensiero mediterraneo


Tutto il periodo che va dal 1815 al 1870, passato alla storia con il nome di Risorgimento, è stato caratterizzato da moti rivoluzionari e da fermenti patriottici e libertari, che non hanno risparmiato la nostra bella Terra d’Otranto.
La Carboneria, società segreta a sua volta derivante dall’antica Massoneria o Libera Muratoria, si era già diffusa in modo particolare nell’Italia meridionale nei primi anni del secolo XIX° per iniziativa delle truppe napoleoniche, che qui stanziarono dal 1803 al 1805, ed il suo tratto saliente era stato lo spirito di opposizione alla politica filo-napoleonica di Gioacchino Murat.
Ma ben presto, con il ritorno di Re Ferdinando a Napoli e la conseguente Restaurazione, che aveva soffocato nel sangue le legittime aspirazioni dei popoli alla libertà e all’indipendenza nonché tutti gli ideali che un tempo erano stati propugnati dalla Rivoluzione Francese, la Carboneria acquistò connotazioni antimonarchiche. Questa società segreta reclutò moltissimi patrioti tra studenti, ufficiali e nobili, e dall’arte dei carbonai, che preparavano il carbone e lo vendevano al minuto, trasse le sue denominazioni.


Tra i paesi appartenenti alla Terra d’Otranto spiccava Gallipoli, dove la situazione era particolarmente accesa, poiché la città era divisa in due grandi fazioni. La prima faceva capo alla vendita L’Asilo dell’onestà, attivista, intransigente e turbolenta, la seconda era scaturita dall’esigenza di porre freno ai disordini provocati dalla prima e di garantire l’ordine cittadino e prese il nome di Utica del Salento.
La prima vendita era capeggiato da Domenico Perrone, Carlo Patitari, Antonio Piccioli, Pasquale Tafuri e Domenico Fersini, la seconda dal canonico Antonio De Pace, da Carlo Leopizzi e Francesco Forcignanò; tra i partecipanti vi erano Bernardo Ravenna, Domenico Antonio De Rossi, Felice Leopizzi, Angelo Spirito e il sacerdote Gaspare Vergine di Corigliano. I contrasti tra i due partiti durarono per tutto il decennio tra il 1820 e il 1830, periodo durante il quale i Carbonari vennero anche perseguitati da parte del Generale Riccardo Church che, in una statistica di ribelli compilata di concerto con l’Ispettore di polizia Borrelli e dall’Intendente di Terra d’Otranto Ferdinando Cito di Torrecuso, solo a Gallipoli identificò ben 78 settari, la maggior parte dei quali qualificati come effervescentiriscaldatipericolosi, e tutti di condotta irreligiosaimmorale e ostile al governo.


Fu questo il contesto storico, politico e culturale nel quale operò Michele Panico, nato a Neviano nel 1796, dal calzolaio Ugone e da Santa Resta. Essendo un convinto patriota antiborbonico, già dall’anno 1814, ancora giovanissimo, venne sottoposto a vigilanza speciale da parte della gendarmeria. Negli anni Venti del XIX° secolo fondò a Neviano una delle più note e movimentate tra le fanfare di Puglia, riunendo molti appassionati di musica ma soprattutto molti ferventi spiriti liberali.
Michele Panico era un capobanda in tutti i sensi, non solo del concerto musicale, ma anche CarbonaroFiladelfo graduato da Assistente e Caporale della Legione, ma a preoccupare la polizia borbonica era soprattutto l’amicizia che lo legava ad esponenti di spicco del tempo, che godevano di un certo potere e di una certa protezione a causa della funzione ricoperta, come il Sindaco di Neviano, Michele Resta, ed il cancelliere Raffaele Piccioli. Nel 1830 il capobanda venne confinato a Gallipoli, ma la sua attività concertistico-rivoluzionaria non cessò, tanto che al Sottintendente Filangieri fu comandato di sorvegliarlo ovunque si spostasse, anche qualora si trattasse di esibizioni musicali con la sua banda.
All’esito di questa speciale sorveglianza Michele Panico fu condotto e trattenuto a Lecce per due giorni, ma appena rilasciato, tornò in paese vantandosi a gran voce che l’Intendente non aveva preso in gran considerazione le sue mancanze. La sua condotta negli anni successivi non cambiò minimamente, tanto che il 10 giugno 1849, in Neviano, durante la festa del Corpus Domini, fu coinvolto nel celebre episodio che ebbe come protagonista il patriota gallipolino Leopoldo Rossi, che riuscì ad evitare l’arresto da parte della gendarmeria borbonica proprio grazie all’intervento della banda musicale e del suo direttore, i quali, brandendo i propri strumenti a mo’ di arma riuscirono a proteggerlo e ad aprirgli una via di fuga: la vicenda assunse connotati romanzeschi e, all’epoca, fece il giro della Provincia suscitando l’ilarità di molti.
Con l’aiuto di un vecchio amico Francesco Colazzo, l’ex intendente della Guardia Urbana divenuto nel frattempo Sindaco, e di Michele Resta, passato dalla carica di Sindaco all’attività di Cancelliere, la Banda musicale di Neviano fu assolta dalle imputazioni, ma fu costretta a sciogliersi, ed il maestro Panico fu arrestato e condotto in prigione. Fortunatamente l’esperienza carceraria durò poco e, dopo il 1850, Michele Panico non si espose più in attività palesemente rivoltose e morì a Gallipoli, nel 1861, senza potersi godere (ironia della sorte!) l’appena proclamata Unità d’Italia.


La rivoluzione musicale posta in essere dalle fanfare durante il periodo risorgimentale, le quali avevano divulgato nelle piazze la bellezza del melodramma, aveva permesso a larghi strati della popolazione di avvicinarsi alla musica attraverso l’ascolto gratuito in spazi accessibili a tutti. Ed infatti, le fanfare, nate come una sorta di dopolavoro, non furono solo un onesto passatempo, ma anche un mezzo di educazione e di utilità pubblica, rivolto a promuovere il progresso e la civilizzazione. Essendo una naturale cornice a feste e a cerimonie sia civili che religiose, esse ebbero un ruolo fondamentale nella ricostruzione politica, sociale e soprattutto morale di quello che poi sarebbe diventato il popolo italiano, veicolando motivi patriottici e diffondendo sentimenti di libertà attraverso le note di illustri compositori e accomunando uomini di diversa estrazione sociale attraverso un linguaggio universale, quello della musica.


Agli inizi degli anni venti del XIX° secolo, la polizia borbonica, comprendendo le potenzialità comunicative e la portata rivoluzionaria della musica, cominciò in un primo momento a schedare tutti coloro che entravano a far parte di queste formazioni musicali che, sotto l’apparenza ludica, celavano quasi sempre covi di anarchici e insurrezionalisti appartenenti a tutte le classi sociali e, successivamente, a coinvolgerli in tutte le principali ricorrenze del Regno, al fine di celebrare il regime stesso. Questi gruppi di musicisti vennero così inquadrati nelle strutture civiche dell’amministrazione borbonica: la c.d. Guardia Urbana, un vero e proprio corpo paramilitare.
Qualche anno più tardi, per contrastare l’uso ancora vigente di indossare divise di ispirazione napoleonica, ai bandisti venne imposto di indossare una determinata divisa e di dotarsi di patente (patentiglia) che li identificasse e li autorizzasse ad esercitare l’attività, previo accertamento della loro fedeltà al regime.
In particolare, la Guardia Urbana di Neviano risulta essere installata nel 1828 sotto la guida del notabile Carmine Romano che ne rimarrà a capo fino al 1841, anno della sua destituzione. Dal 1828 al 1841 i bandisti della Guardia Urbana non indosseranno uniformi e non avranno la patentiglia che diverrà obbligatoria solo successivamente.
Nel 1853, anche la Banda di Neviano, la medesima che solo qualche anno prima era stata inquisita per sedizione, figurerà nell’elenco delle trentadue Bande musicali salentine approvate dall’amministrazione borbonica.

Luigi Solidoro

La pastorale gallipolina

Pubblicato il 24 dicembre 2020 sulla rivista culturale Il pensiero mediterraneo 


Tutti noi avvertiamo il periodo natalizio come un momento di profonda intimità, di riscoperta dei valori affettivi e della famiglia, che possiamo assaporare solo privilegiando la riflessione e dedicando ampio spazio alla meditazione. Un periodo che la nostra società contemporanea ha ormai svuotato di significato, proponendoci una sorta di modello sostitutivo impregnato di consumismo e costituito dalla corsa ai regali.

Nella città di Gallipoli, da sempre centro di intensa vita religiosa e di tradizioni radicate, il periodo di Avvento, costituito dalle quattro domeniche che precedono il giorno di Natale, viene ulteriormente allargato, anticipando l’inizio addirittura al 15 ottobre, giorno in cui si festeggia Santa Teresa d’Avila, per poi passare attraverso il 22 novembre (Santa Cecilia), il 30 novembre (Sant’Andrea), l’Immacolata (8 dicembre) e Santa Lucia (13 dicembre).

Tutto questo lunghissimo periodo è caratterizzato da un’atmosfera carica di attesa e di profonda emozione e viene scandito dalle note della Pastorale gallipolina, un semplice e dolce componimento musicale concepito come nenia per il Divin Redentore che, come ogni bambino che viene al mondo, ha bisogno di essere cullato con una ninna nanna.

La tradizionale Pastorale gallipolina è un brano tipicamente strumentale che viene da sempre eseguito con Violini, Mandolini, Flauti, Clarinetti, Fisarmoniche e Chitarre. Di tale composizione abbiamo ereditato due versioni: la prima in tonalità di Sol Maggiore, conosciuta oggi come Pastorale antica; la seconda in tonalità di Re maggiore, versione semplificata della prima e oggi più eseguita. Della Pastorale Antica (in Sol maggiore), una trascrizione per Organo (anonima, riconducibile alla calligrafia di Ettore Vernole, noto cultore delle memorie storiche, artistiche e delle tradizioni popolari della città di Gallipoli, vissuto dal 1877 al 1957), una trascrizione per Violino II ed una per Arpa (entrambe anonime, ma aventi stessa calligrafia e quindi riconducibili senza ombra di dubbio alla medesima mano), sono custodite nell’archivio storico della Biblioteca Comunale di Gallipoli, più precisamente nel Fondo Vernole, mentre della versione più conosciuta in Re maggiore, elaborazione musicale del secondo Novecento, non esistono spartiti antichi ed è stata tramandata in maniera mnemonica. E’ facile presumere che la nascita di questa versione in Re maggiore sia avvenuta dall’estrapolazione, da parte dei musicisti dilettanti presenti in Gallipoli, delle parti musicali della Pastorale antica in Sol maggiore più semplici da eseguire; sicuramente la tonalità fu trasportata in Re maggiore per una questione di comodità esecutiva e si aggiunse come introduzione l’incipit di Tu scendi dalle stelle (per un breve periodo sostituito da Astro del Ciel). Inoltre, per quasi l’intera parte centrale in tonalità minore è stato aggiunto un ornamento glissato affidato al Clarinetto.

Dell’originale Pastorale Gallipolina in Sol maggiore, oltre alle parti per Violino IIOrgano ed Arpa del Fondo Vernole già menzionate e che si credeva fossero le uniche superstiti, in questi ultimi anni sono riuscito a ritrovare alcune trascrizioni per organo o pianoforte (anche in tonalità di Do maggiore) di fine XIX – inizio XX secolo e, soprattutto, una preziosa partitura manoscritta di fine Ottocento per due Mandolini, Mandola e Chitarra, recante il titolo di Aria Pastorale e da me pubblicata ne “La pastorale gallipolina. Saggio Breve” nel dicembre 2019. Questo importante documento storico apparteneva al maestro Alfredo Dongiovanni (1889 –1968), chitarrista, mandolinista e compositore autodidatta, nonché barbiere cerusico in Gallipoli: ogni sera, quando chiudeva il suo salone da barba sito vicino la Chiesa del Sacro Cuore di Gesù su Corso Roma, il maestro Alfredo era solito tenere dei veri e propri concerti con allievi ed amici musicisti. In questa partitura non viene riportato l’autore della musica, cosa che, invece, il Dongiovanni non ometteva mai nelle sue innumerevoli trascrizioni di musica operistica e salottiera; l’autore di tale composizione non viene riportato nemmeno dall’attento storico e musicologo Ettore Vernole nei suoi scritti sui musicisti gallipolini.  La musica della partitura del Dongiovanni è praticamente identica alla parte per Violino conservata nella Biblioteca Sant’Angelo, anche se alcune sezioni musicali (comunemente chiamate ritornelli) sono invertite di posizione, a riprova che non si tratta di musica d’autore, da trascrivere rispettosamente in modo fedele e puntuale (dove è impossibile pensare di anticipare o posticipare una battuta, una sezione o un tema musicale), bensì di musica popolare che si presta facilmente a rimaneggiamenti.

Rispetto a questa partitura, nella parte per Violino conservata in Biblioteca è presente solo una variante: essa reca un’introduzione che sicuramente è stata aggiunta successivamente. Questo si evince dal fatto che il primo rigo della parte di Violino II era sicuramente vuoto (come solitamente si usa fare ancora oggi per una questione di ordine grafico) e non è bastato al copista per aggiungere tutte le note dell’idea musicale sorta dopo la scrittura di tutto il brano. Anche la doppia scrittura della Chiave di sol, delle alterazioni e del tempo musicale tra primo e secondo rigo (poiché si scrivono solo una volta all’inizio del brano) e dalla scritta Introduzione, situata in alto a sinistra in maniera obliqua, si può facilmente dedurre tale manovra. Inoltre, a riconferma di ciò, nella parte di Arpa questa introduzione è presente solo nell’ultima facciata, dopo la chiusura del brano.

Un’ultima particolarità emerge, invece, dalla partitura del maestro Dongiovanni: nelle ultime due facciate è presente una musica, sempre in tonalità di Sol maggiore, in tempo 3/4 e recante l’indicazione agogica Lento, priva di titolo e che veniva sicuramente utilizzata dal maestro come sua personale introduzione durante l’esecuzione della Pastorale. 

Vero è che, a livello tecnico, con il termine Pastorale si indica una composizione musicale bucolica che narra scene di vita campestre o che richiama suoni della natura (il ruscello, l’usignolo etc.). Ma, un conto è l’abilità compositiva nell’elaborare un brano richiamante scene agresti, e un altro è la musica dei pastori che nel periodo dell’Avvento prendevano i loro strumenti, in particolare le zampogne, e scendevano in città suonando motivi semplici e orecchiabili per guadagnare qualche spicciolo. La Pastorale gallipolina, infatti, è una nenia, una ninna nanna natalizia priva di ambizioni compositive, semplice e spontanea, che si discosta enormemente dallo stile elaborato e ricercato di altre composizioni Pastorali rintracciabili in Gallipoli (come le cinque pastorali settecentesche custodite nel Fondo Vernole o come le Pastorelle di Vincenzo Alemanno, compositore gallipolino del XIX secolo). Ci piace ripetere, infatti, quello che raccontavano i nostri nonni ai propri nipoti, e cioè che questa musica fosse la ninna nanna suonata dai pastori a Gesù Bambino nel presepe. Musica che si ascolta con il cuore, dall’andamento lento e melodioso, come, del resto, quasi tutta la musica popolare nostrana. Questo deriva dal fatto che, essendo un paese di mare, i nostri ritmi sono per lo più a barcarola, cioè con quel tipico moto ondulante che richiama l’andamento del mare, e non spigolosi o ritmici come lo sono quelli di pizzica e taranta, oppure le composizioni pastorali del sei – settecento di scuola napoletana, dal tipico andamento allegro. Questo suo andamento lento e cullante la rende tipicamente autoctona e fa sì che si discosti anche dalle tradizionali pastorali natalizie suonate nella vicina Taranto.

A conferma della matrice popolare di questa musica, come accennato precedentemente, vi è anche il fatto che un testo in dialetto gallipolino, oggi ormai dimenticato, era stato apposto alla tradizionale nenia e cantato dai nostri avi. Collegando le varie parti testuali che mi sono state cantate dalle persone che ho intervistato, sono riuscito ad elaborare un frammento di questa tradizione ormai perduta. Già lo storico Ettore Vernole, alla Conferenza sul suo volume Echi musicali del Medioevo gallipolino tenuta il 10 febbraio 1943 presso la sezione di Gallipoli della Società Dante Alighieri, affermava con convinzione che: “Il Salento ha pastorali sue proprie, tutte varianti di una sola cantilena, quella che sgorga naturale dallo zufolo e dalla zampogna (la quale qui è chiamata con vocabolo ellenico cimmàrra, da chimaira), e dolciscono la tristezza, ricercano e ritrovano in fondo all’anima un gaudio mistico, e accompagnano la strofetta tenue onde il popolo nostro raffigura a sé stessa, a immagine e somiglianza della propria famiglia, la più Santa delle Famiglie”.

La struttura formale della versione originaria della Pastorale Gallipolina in Sol, escludendo le varie introduzioni aggiunte nel corso del tempo (ricordiamo, oltre all’incipit di Tu scendi dalle stelle e Astro del ciel, quella che si trova nella parte di Violino ed Arpa del Fondo Vernole, quella del maestro Ippazio Frisenna e quella del maestro Alfredo Dongiovanni), è Maggiore – Minore – Maggiore, composta da quattro sezioni (in alcune versioni cinque) in tonalità maggiore, quattro sezioni in tonalità minore, seguite da altre tre sezioni in tonalità maggiore. Tra le varie sezioni, tutte ritornellate (cioè che si ripetono due volte), non vi è un legame di continuità musicale in quanto ognuna di loro comincia e finisce sempre con la tonica, proprio come i semplici motivi musicali eseguiti dagli zampognari con i loro strumenti. La melodia, come già accennato in precedenza, è molto semplice, di matrice popolare e procede quasi sempre per intervallo di terza tra la nota superiore e quella inferiore. Anche la struttura armonica rispecchia questa semplicità: viene utilizzato, infatti, solo il giro armonico di Sol maggiore e di Sol minore, e non sono presenti modulazioni (ossia cambi di tonalità) né ai toni vicini né a quelli lontani. Il tempo musicale è di 6/8 ma, in realtà, viene eseguita in tempo 3/4 Lento. La composizione, nel suo insieme, può essere sintetizzata in tre grandi sezioni: una prima fase, in tonalità maggiore, dove si può individuare lo stupore iniziale delle genti per la nascita in una mangiatoia del Redentore; una seconda fase, più lunga e melanconica, in tonalità minore, che potrebbe rimandare alla Passione morte di Gesù; una terza che, con il ritorno della tonalità maggiore, ci porta alla gioia della Resurrezione.

Ricordiamo, infine, che dopo la Seconda Guerra mondiale questa composizione era andata quasi dimenticata e fu grazie al maestro Gino Metti (1905 –1982: organista, compositore, direttore d’orchestra e di banda) e agli arrangiamenti che elaborava per i suoi giovani allievi che si recuperò e si incrementò, riprendendo la consuetudine di eseguirla per le strade cittadine, soprattutto di notte.

Luigi Solidoro

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