L’uomo Beethoven

Pubblicato il 31 gennaio 2021 sulla rivista culturale Il pensiero mediterraneo


Il 17 dicembre scorso, nel giorno del suo battesimo, in tutto il mondo si è festeggiato il 250esimo anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven, compositore che rappresenta un pilastro fondamentale nella Storia della musica.

Egli fu un grande innovatore nella forma e nel sentimento, completando ed esaurendo il Classicismo, preparando il Romanticismo e donando alla musica una buona dose di sperimentalismo che la condurrà alla crisi estetica manifestata successivamente da BerliozWagner e Schoenberg. La forzatura che attuò nelle forme classiche non fu mirata ad un’innovazione fine a sé stessa, ma rappresentò una vera e propria esigenza derivante dalla voglia di comunicare stati d’animo interiori ed eventi mai descritti in musica prima d’allora. Egli con le sue opere esternò la più grande carica e varietà di emozioni, solcando i mari dell’ira incalzante, dell’umore litigioso, dell’esaltazione, della tenerezza e dell’angoscia profonda.

In Beethoven, il confine tra pazzia e genialità in preda all’ispirazione non è stato sempre facile da identificare. Osservando i suoi modi burberi, le sue rudi abitudini (si raccontava che camminasse frettolosamente per strada di notte andando avanti e indietro, agitando le braccia, brontolando e parlando tra sé e sé) ed i suoi frequenti attacchi d’ira bestiale, è comprensibile immaginare come sia stato difficile per i suoi contemporanei accettare l’idea che tale “individuo” potesse scrivere musica di così alta bellezza e profondità spirituale.

Nelle sue composizioni, alla forza bruta che urlava la sua collera al mondo si contrapponeva lo spirito innocente di fanciullesca dolcezza; una parte di lui era quasi insensibile, egoista, arrogante a tal punto che la sua famiglia lo soprannominava “dragone”; un’altra parte, invece, era timida, innocente, generosa, amorevole, nobile. Vien da pensare che sicuramente angelo e demone agirono in lui contemporaneamente per creare uno dei più grandi geni musicali della storia dell’umanità. Era anticonvenzionale, presuntuosamente moralista, fortemente indipendente e visse la sua vita al limite della pazzia che solo nell’arte, attraverso un durissimo lavoro, riuscì a trovare ordine e pace.

Crebbe triste e solitario in una famiglia povera, con un padre austero, severo e dedito all’alcool, ed una madre gentile ma depressa; da piccolo il suo unico svago fu il clavicembalo e suo padre, avendo intuito il suo talento, cercò di trarne guadagno esponendolo sul mercato musicale come una vera e propria merce da vendere, proponendolo come bambino prodigio e obbligandolo a studiare anche di notte. Questi terribili sforzi consumarono la sua gioventù ma, al tempo stesso, forgiarono in lui un carattere di ferro, facendolo giungere alla convinzione che nella vita bisognasse soffrire per poter ottenere qualcosa. Fu perennemente innamorato, anche in modo estremo, ma quasi sicuramente solo in maniera platonica.

Trasferitosi a Vienna nel novembre del 1792, quasi ventiduenne, nel giro di pochissimo tempo Beethoven divenne concertista di pianoforte assai applaudito e, per così dire, alla moda, infiammando quel pubblico abituato ad ascoltare l’eccellente musica degli illustri J. Haydn (che per un breve periodo fu suo maestro) e W. A. Mozart, morto proprio l’anno prima. Nel giro di poche settimane la sua irresistibile veemenza pianistica gli aprì le porte dei più ambìti palazzi nobiliari viennesi: si diceva che nessun esecutore avesse mai avuto tale forza e così tanta immaginazione.

Vi era qualcosa di meraviglioso e sublime nel suo modo di suonare che andava ben oltre la bellezza e l’originalità; si narra che una sera fece un’esecuzione talmente commovente che gli spettatori scoppiarono in lacrime. Abbandonò presto le consuete forme musicali che imprigionavano il suo estro per ricercare e sperimentare forme nuove e sempre più ampie. Le sue composizioni, infatti, cominciarono ad avere sempre più vigore, fantasia, eccitazione; ricercava un suono talmente pieno e forte da far tremare i lampadari presenti nei grandi saloni nobiliari; questo, però, faceva storcere il naso a molti critici musicali e a quei musicisti spaventati da tanta impetuosità.

La sua determinazione non gli diede un’immediata gratificazione, ma lo portò al successo. Contrariamente alla tradizione, che testimonia l’indigenza di quasi tutti gli artisti, non visse in povertà ma fu prosperoso e per un certo periodo ebbe anche la servitù. Il suo impegno era costante e trascorreva le giornate ad impartire lezioni di pianoforte, dirigere orchestre, assistere alle prove, litigare con i suoi editori, mantenere una fitta corrispondenza, leggere testi di filosofia, tenere contatti con gli amici, scontrarsi continuamente con i suoi mecenati ed andare continuamente a caccia di donne.

Ben presto, però, cominciò ad avere il più tragico dei problemi per un musicista: un fastidio all’orecchio sinistro che, pochi anni dopo, comprometterà totalmente il suo udito. Inizialmente ebbe difficoltà ad udire i suoni acuti, poi cominciò a sentire continuamente ronzii e dolori; questo problema cominciò quando aveva ventisei anni e, poco alla volta, la perdita fu irrimediabile e definitiva. I medici non gli furono di grande aiuto, ritenendo che non vi fosse nulla da fare. Beethoven si sentì quasi mutilato, sminuito e, vergognandosi profondamente, fece di tutto per nascondere la sua disabilità. La sua attività di pianista ne risentì tantissimo e visse sempre nell’incubo di poter perdere anche la capacità di comporre.

Fu così che nell’autunno del 1802, quasi vicino al suicidio, si trasferì temporaneamente in un piccolo villaggio vicino a Vienna chiamato Heiligenstadt, per allontanarsi dai rumori della città e dalle continue relazioni sociali che essa imponeva. Qui scrisse un’accorata lettera indirizzata ai suoi due fratelli, mai spedita, che prese il nome di Testamento di Heiligenstadt e dalla quale si può comprendere lo stato d’animo del sommo compositore:

“Oh, voi uomini che mi considerate litigioso, permaloso o misantropo, come male mi avete giudicato. Voi non conoscete la ragione segreta. Obbligato ad accettare la prospettiva di una infermità permanente, ho dovuto immediatamente escludermi dalla vita e vivere in solitudine. Per me non ci possono essere relazioni sociali ed umane, conversazioni e reciproche confidenze. Quando sono in compagnia sono assalito da una grande ansietà per la paura di poter rivelare la mia condizione. Che umiliazione quando qualcuno che è di fianco a me può sentire un flauto lontano, mentre io non riesco a sentire proprio nulla. Queste esperienze mi hanno portato vicino alla disperazione e sono giunto sul punto di porre termine a questa vita. Solo la mia arte mi trattiene dato che mi sembra impossibile lasciare questo mondo prima di aver composto e prodotto tutto ciò che mi sento di dover realizzare.”

Nel 1814 fu costretto ad abbandonare definitivamente la sua carriera di pianista e di direttore e nel 1818 si poteva comunicare con lui solo tramite i famosi quaderni di conversazione. Essere sordo per un musicista è come essere cieco per un pittore e sembrava una disabilità destinata a impedire l’atto compositivo. Ma, racchiuso in sé stesso, Beethoven affrontò la sua malattia con una esplosione interiore di creatività: passava tutto il suo tempo a comporre, la sua frenesia immaginifica si intensificò e le idee musicali gli attraversavano la mente come sciami e, quando veniva il momento di scriverle, le analizzava e le riguardava con stizzosa frenesia ed estrema accuratezza, cancellando e riscrivendo un passaggio decine di volte prima di raggiungere la stesura finale.

In una conversazione con un amico ritroviamo la descrizione del processo creativo descritto dallo stesso Beethoven: 

“Non posso dire da dove vengono le mie idee. Mi giungono improvvise direttamente ed indirettamente. Riesco quasi a prenderle tra le mani. Sono risvegliate dagli stati d’animo e tramutate in toni e suoni, rombano e infuriano fino a quando per me prendono forma di note… (omissis) … Dal fuoco dell’entusiasmo devo liberare la melodia in tutte le sue direzioni. La inseguo, la catturo ancora. La vedo volare via e sparire. La intravedo nuovamente. Sono costretto a moltiplicarla e alla lunga la conquisto… (omissis) … L’idea di base non mi lascia mai. Sorge, cresce verso l’alto e io posso vedere e sentire la figura mentre il tutto prende forma e si fonde in un’unità. Tutto quello che devo fare successivamente è trascrivere”.

Nonostante la sua sordità, il senso del suono era chiarissimo e, con l’aiuto del cosiddetto orecchio musicale interno che aveva sviluppato negli anni precedenti, Beethoven immaginava toni e note e riuscì a comporre un’immensità di opere che aprirono la strada ad un nuovo modo di concepire la musica: opere monumentali, sinfonie titaniche, creazioni profonde e di altissimo valore. Molti critici hanno addirittura ipotizzato che nelle sue ultime composizioni parlasse con Dio.

In questo anno segnato dalla pandemia, in cui le norme per limitare il contagio hanno imposto la chiusura dei teatri e la sospensione della musica dal vivo, ognuno di noi ha potuto vivere, seppur in minima parte, quella dimensione beethoveniana, assaporandone l’enorme difficoltà del “silenzio forzato” e dell’isolamento sociale.

Pertanto, proprio in questo momento storico, la lezione impartitaci dall’uomo Beethoven diventa quanto mai preziosa, ricordando all’intera umanità che durante le più grandi tragedie, l’essere umano solo dentro di sé può trovare quell’energia e quello slancio capaci di fargli superare anche le più grandi avversità.

Luigi Solidoro

La Musica della Settimana Santa

Pubblicato sulla rivista culturale Anxanews, n.50 – marzo/aprile 2011, pagg. 22-23

Da sempre la Passione e Morte di Gesù Cristo sono state fonte d’ispirazione artistica: dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla musica. Ed è proprio la musica, più che la pittura, la scultura o la stessa poesia, a pervadere l’animo con innumerevoli composizioni dal forte impatto emotivo. Infatti, questo solitario canto di morte riesce, in maniera unica e senza eguali, a far meditare profondamente sul misterioso destino che spetta ad ogni umano una volta terminata l’esperienza terrena, mettendo in luce lo strazio del distacco (con melodie dal piglio brusco e raggelante) e la speranza della pace raggiunta.

Dato l’altissimo livello toccato da alcune composizioni, sembra quasi riduttivo identificare queste vere e proprie “opere d’arte” con il termine di Marcia funebre, poiché molto spesso ci si trova di fronte a qualcosa di molto più complesso e profondo, che di semplice ha solo la struttura armonica, capace di comunicare stati emotivi con grande intensità e profondità espressiva.

Nel linguaggio musicale tecnico è definita Marcia una composizione strumentale d’andamento regolare e di ritmo marcato in due o quattro tempi (2/4 o 4/4), talora anche composti, vale a dire divisibili in 2 o in 4 (6/8 o 12/8). D’origine antichissima, nacque evidentemente per accompagnare e regolare il passo di una moltitudine in cammino, dai soldati in marcia ai fedeli in processione. L’uso di questa forma musicale si registra già prima del XVI secolo, e nella seconda metà del ‘600 assume lo schema formale del Minuetto (marciatrio di carattere cantabile – marcia), a cui più tardi si aggiunsero un’introduzione iniziale e, a volte, una coda finale.

Questo schema formale, rispettato anche dagli autori locali, si consolida definitivamente nell’800 e prevede la prima parte (marcia) in tonalità minore e con una melodia semplice ed essenziale che si arricchisce e si elabora successivamente con intrecci di voci e temi dando vita, in tal modo, ad un brano sempre più complesso e di immediato impatto. Con il trio cambia la tonalità, da minore a maggiore: la melodia diventa più dolce quasi a voler sottolineare il passaggio dalla disperazione e dallo strazio al momento della consolante rassegnazione. Il ritorno alla tonalità minore iniziale chiude la composizione.

La letteratura pianistica ed orchestrale è ricca di esempi di grande spessore: dalla Marcia funebre della Sonata op. 26 per pianoforte (1801) a quella della Sinfonia Eroica (1804) di L. van Beethoven; dalla Marcia funebre della Sonata op. 35 per pianoforte di F. Chopin (1838) alla Marcia funebre di R. Wagner dell’opera Sigfrido ( 1876), o alla grande Marcia Funebre di A. Ponchielli scritta per la morte di A. Manzoni, veri e propri gioielli di questa forma musicale.

Un filo diretto collega queste composizioni con quelle di autori minori appartenenti alle tradizioni locali del periodo di Quaresima;  autori, questi, che non sono passati alla storia ma che hanno creato opere ugualmente ricche di fascino e di grande passione, frutto di una commossa e sentita espressione popolare, entrate ormai nella tradizione, nel cuore e nella memoria collettiva.
Come, ad esempio: Enrico Petrella (1813 – 1877) operista della Casa Editrice Lucca che nel 1858 scrisse la conosciutissima marcia funebre Jone, tratta dall’omonima opera lirica; Domenico Bastìa (1858 – 1934) direttore di compagnie liriche di giro e del primo Concerto Bandistico comunale Giovanni Paisiello di Taranto. Il suo nome è legato soprattutto alla marcia funebre A Gravame al cui suono inizia, la notte del Giovedì Santo dalla chiesa di S. Domenico, il pellegrinaggio della Vergine Addolorata. In particolare, si ricorda che questa marcia venne composta dal Bastia nel 1891 in occasione della morte del suo carissimo amico Giuseppe Gravàme, di trentasei anni, capobanda del complesso bandistico tarantino diretto dallo stesso Bastia. L’improvvisa morte del Gravàme spinse Bastìa a comporre e strumentare la marcia in ventiquattro ore tanto da eseguirla al funerale del caro amico.
E poi ancora, Francesco Buzzacchino (1874 – 1908) compositore di musica di vario genere, canzoni, ballabili e piccole sinfonie; autore di A mia madre, una delle più delicate marce funebri; Luigi Rizzola (1877-1969) che dopo aver compiuto gli studi di pianoforte, violino, armonia e contrappunto nel conservatorio della sua città (Torino) iniziò giovanissimo l’attività di musicista e direttore d’orchestra in Italia ed al l’estero. Dal 1936 al 1940 diresse la Banda comunale Paisiello di Taranto dopo il periodo bellico e fino al 1953 diresse la Banda S . Cecilia che successivamente riprese il nome di G. Paisiello. Nel 1911, in occasione dei funerali della madre nella Basilica di S. Maria Novella a Firenze, una piccola orchestra da lui diretta eseguì un’elegia funebre composta dallo stesso Rizzola ed intitolata Mamma. L’elegia, dopo anni, piacque a Cesare Guardone, impresario della banda Paisiello, che invitò il maestro a trasformarla in marcia funebre.
E fu cosi che nel 1937 la marcia Mamma fu eseguita per la prima volta in pubblico e da allora è una delle più amate ed eseguite. Rizzola è anche noto per un’altra marcia funebre, Christus, composta nel 1945 (sempre per la Settimana Santa di Taranto) in occasione della ripresa del pellegrinaggio dell’Addolorata dopo la pausa bellica; Pietro Marìncola (1884 – 1960) considerato uno dei grandi maestri direttori di banda, autore di molta musica sinfonica e di Christus, una splendida marcia funebre dalla disarmante bellezza ottenuta nella più totale semplicità dei temi melodici e della struttura armonica; i fratelli Antonio ( 1896 – 1988) ed Alessandro Amendùni (1904) di Ruvo di Puglia, il primo molto apprezzato da Giacomo Puccini e autore di musica sacra vocale e strumentale (musicò tra l’altro O mia bella speranza di S. Alfonso Maria de’ Liquori dedicandola a Papa Paolo VI) ed il secondo revisore e trascrittore per banda di molte opere per la Casa Editrice Ricordi di Milano; Amleto Cardone (1910) autore della bellissima Marcia Funebre Grido di Dolore, composta ed eseguita la prima volta nel 1978, vincendo il Concorso Nazionale per la composizione di una Marcia Funebre, organizzato dall’APT di Taranto e dalle Confraternite dell’Addolorata e del Carmine di Taranto. Inoltre, la Confraternita del Monte Carmelo e della Misericordia di Gallipoli possiede una marcia funebre dello stesso Cardone, dal titolo Ultima dimora, donata dall’autore per la processione dell’Addolorata.

Ed ancora: Amedeo Vella (1839 – 1923) autore della celeberrima Una lacrima sulla tomba di mia madre, meglio conosciuta come “Vella”, eseguita in tutta Italia ed inserita anche nel film di De Sica Pane amore e… ed in Amarcord di Fellini; Giuseppe Cacace (1828 – 1891 ) autore di Inno a Cristo morto del 1850, prima marcia funebre scritta per i Riti di Taranto, Vincenzo Canale (1858 – 1933), Saverio Calò (1843 – 1933), Adolfo Bonelli (1868 – 1938), Giacomo Lacerenza (1885 – 1952), Michele Ventrelli (1900 – 1974), Vittorio Manente (1913), Nicola Centofanti (1913 – 1997), Nino Ippolito (1922), tutti musicisti che hanno legato il loro nome ai Riti della Settimana Santa soprattutto nel meridione d’Italia.

A questi si aggiungono i gallipolini Vincenzo Alemanno (1827 – n.p.; fu avviato allo studio della musica e del comporre dallo zio, Allegretti Bonaventura, 1791 – 1872, valente violinista e flautista, nonché compositore), Ercole Panico (1835 – 1891; nel 1888 trasformò la fanfara di Gallipoli, fondata dal padre Michele, in banda e fu valente insegnante), Francesco Luigi Bianco (1859 – 1920; avviato agli studi musicali da E. Panico, li completò con Camillo De Nardis al Conservatorio di Napoli; meritano menzione i suoi due melodrammi: Almansor e soprattutto Sara la trovatella, rappresentata a Gallipoli il 31 marzo 1892 da una compagnia lirica formata dagli artisti del Teatro San Carlo di Napoli ed ebbe sei repliche col tutto esaurito.

La Confraternita del Carmine di Gallipoli possiede tre Oratori sacri, donati dallo stesso autore per la Memoria dei Dolori di Maria ed eseguiti ogni anno in forma ciclica (grazie, soprattutto, all’attenzione ed alla cura della Confraternita), Giovanni Monticchio (1852 – 1931, anch’egli ebbe come primo maestro il Panico e terminò gli studi al Conservatorio di Napoli), Raffaele De Somma (1867 – n.p.; fecondo compositore, il numero delle sue composizioni supera la cifra di trecento; vanno segnalate: Canto del mare per Nazario Sauro, Inno alla scuola adottato dal Liceo Musicale di Torino e da altri Conservatori, Preghiera del marinaio su versi del Fogazzaro, Carri armati, canto militare segnalato nel foglio d’ordini n. 48 del 1935 del Ministero della guerra; a 76 anni era in piena attività, ma la guerra e le successive vicende hanno fatto perdere ogni contatto e, quindi, si ignora la data di morte), Ippazio Frisenna e Gabriele Ammassari che con le loro opere hanno sicuramente alimentato la religiosità e la devozione popolare oltre ad aver arricchito il patrimonio culturale della Città bella.

La nostra tradizione conserva gelosamente questi componimenti musicali, opere che rispecchiano l’intimo sentimento di chi vive in una terra di pescatori, ogni giorno a contatto col pericolo, dove basta uno sguardo sul mare per capire l’onnipotenza divina.

Sicuramente i nostri Riti Pasquali non sarebbero la stessa cosa senza queste pagine musicali ricche di pathos che da decenni accompagnano il passo degli incappucciati impegnati nelle processioni del Venerdì e del Sabato Santo; musiche che negli ultimi anni hanno registrato un interesse sempre maggiore sotto l’aspetto musicologico. Composizioni che bisogna salvare dal trascorrere del tempo e tramandare come memoria storica di alti valori musicali e spirituali.

Luigi Solidoro

La Musica Liturgica oggi tra approssimazione e dilettantismo

Pubblicato sulla rivista culturale Anxanews, n.97 – gennaio/febbraio 2019, pagg. 25-26

Accade molto spesso di partecipate alla Messa domenicale o alla Celebrazione Liturgica in ricorrenza di una festività religiosa e di provare un profondo disagio ascoltando la musica che viene eseguita.

Per dirla con le parole del maestro Riccardo Muti: “ La Chiesa ha determinato la storia della grande musica, e quando in Chiesa si ascoltano quattro strimpellate di chitarra o canti approssimativamente intonati, con parole insipide e senza senso, accompagnati da organisti che non riescono a suonare in maniera “pulita”, credo che sia un insulto! Questa è mancanza di rispetto all’intelligenza delle persone”.

Ma, oltre al maestro Muti, molti illustri musicisti e musicologi hanno finora affrontato questo problema che, come afferma don Antonio Parisi (autore di innumerevoli brani liturgici eseguiti in tutta Italia), vede schierati tradizionalisti contro innovatori, diplomati contro dilettanti, organo contro chitarra, coro e assemblea in perenne conflitto, canto gregoriano e polifonico contro musica popolare, musica “ritmica giovanile” contro musica tradizionale e via di questo passo.

Anche dalle nostre parti questo fenomeno è alquanto rilevante; ci si trova di frequente, infatti, ad assistere ad esecuzioni musicali molto discutibili, che non invitano alla preghiera o alla meditazione, e che sono lontane anni luce dal loro scopo principale che dovrebbe essere quello di parlare al cuore e di innalzare lo spirito dell’ascoltatore verso Dio.

Vengono, sovente, dimenticati quei principi ispiratori dell’autentica bellezza evocati da Papa Benedetto XVI, o, come afferma Mons. Valentino Miserachs Grau: “… si è arrivati ad un’anarchica proliferazione dei più disparati esperimenti musicali che hanno introdotto un cumulo di banalità mutuate dalla musica leggera di consumo o di altri stravaganti prodotti esotici, dimenticando quanto aveva detto Paolo VI, nel 1968, rivolgendosi ai partecipanti del Congresso Nazionale dell’AISC (Associazione Nazionale di Santa Cecilia): Non tutto ciò che è fuori del Tempio è atto a superare la soglia”.

Sicuramente la causa di questa deriva artistica e spirituale è da ricercare nella mancanza di attenzione alla tutela estetica della Musica Liturgica (destinata, cioè, alla Liturgia).

Non si può non rilevare, purtroppo, l’inadeguata preparazione musicale di coloro che spesso vengono individuati quali responsabili dell’animazione musicale della propria comunità, un tempo Maestri di Cappella del calibro di J.S. Bach, G.F. Handel, J. Haydn, G. Donizetti, L. Perosi etc… solo per citarne alcuni.

Nelle realtà parrocchiali ci si trova di fronte, da un lato, a veri e propri dilettanti volontari che, rendendo un servizio prezioso alle loro comunità, eseguono canzonette in stile pop o melodie simili a stornelli; dall’altro, a musicisti diplomati, si, in Conservatorio, ma digiuni delle competenze specifiche che, pur di far vedere le loro abilità sull’organo, eseguono brani della tradizione liturgica “arricchiti”, per così dire, dall’aggiunta di accordi dissonanti, trilli, acciaccature, arpeggi, scale diatoniche, cromatiche ed ogni altro tipo di ornamento del tutto fuori luogo, stilisticamente inadeguato e che denota un cattivo gusto nell’esecutore.

Queste bizzarre scelte musicali portano all’ascolto di un armonioso fracasso che nulla ha in comune con quello che dovrebbe, invece, esaltare lo spirito e rispettare la sacralità del luogo.

La vanità di questi pseudo – musicisti, desiderosi di momenti di notorietà, dovrebbe esercitarsi in altri momenti e non in luoghi sacri; questi, purtroppo, hanno una visione totalmente deforme del compito che gli è affidato, in netto contrasto e totalmente inconciliabile con quello che dovrebbe essere l’Arte della Musica Liturgica.

Anche Papa Giovanni Paolo II affronta il medesimo argomento scrivendo, in data 2 febbraio 1994, a monsignor Domenico Bartolucci (direttore della Cappella Musicale Pontificia) in occasione del quarto centenario della morte del grande Pierluigi da Palestrina: “ Oggi, come ieri, i musicisti, i compositori, i cantori delle Cappelle liturgiche, gli organisti e gli strumentisti di chiesa devono avvertire la necessità di una seria e rigorosa formazione professionale. Soprattutto dovranno essere consapevoli che ogni loro creazione o interpretazione non si sottrae all’esigenza di essere opera ispirata, corretta, attenta alla dignità estetica, sì da trasformarsi in preghiera orante”.

Dello stesso tono, qualche anno dopo, l’affermazione di don Guido Genero: “… gli organisti (e, in genere, i musicisti che suonano nelle celebrazioni liturgiche) si impegnino per una vera formazione liturgica, basata sulla comprensione specialistica dell’azione celebrativa cattolica e delle sue ragioni. E’ evidente che, senza un chiaro riferimento al sentire tipicamente ecclesiale intorno alla liturgia come esperienza religiosa, non sia possibile un esercizio credibile e proficuo di questo ruolo musicale”.

Un altro aspetto molto importante riguarda le forme musicali che dovrebbero adottare i compositori di tale musica. Queste vanno adeguate e pensate secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II (1962-1965), secondo il quale, nel capitolo VI, l’Assemblea orante non deve fungere solo da spettatore, come succede in teatro, ma deve avere la possibilità di interagire con il coro perché parte attiva dell’azione liturgica. Sono bandite, quindi, le figure di quei cantori solisti che si esibiscono, in maniera pedante e a volte anche discutibile, dall’inizio alla fine della liturgia, quasi come in un recital lirico.

A tal proposito, sempre Papa Giovanni Paolo II affermava: “Sono da conservare e promuovere lo studio e la pratica della musica e del canto in quegli ambiti e con quegli strumenti che il Concilio Vaticano II ha indicato come privilegiati: il canto gregoriano, la polifonia sacra e l’organo. Solo cosi la Musica Liturgica potrà assolvere degnamente il suo compito nel contesto della celebrazione dei Sacramenti e, in modo speciale, della Santa Messa”.

Si comprende bene, quindi, l’assoluta insensibilità, etica ma anche religiosa, e la scarsa preparazione che si ritrova, purtroppo, anche nelle produzioni di taluni compositori del nostro tempo che, ignorando la contestualizzazione e la funzione delle loro opere musicali, elaborano composizioni miscelando stili musicali vari, armonie jazzistiche, ritmi di valzer, di tango, atmosfere da film dell’orrore, dettati dal tentativo di fare altro e dalla voglia di essere innovativi. Inoltre, con il galoppante sviluppo della tecnologia e l’avvento di software di scrittura musicale e composizione (dove è il pc a suggerire quali note scrivere sul pentagramma), si è giunti ad una moltitudine di compositori, o sedicenti tali, che, senza l’aiuto di questi programmi tecnologici, mai avrebbero potuto creare un brano musicale. Molta “musica” che si scrive oggi, infatti, ignora, non dico la grammatica musicale, ma perfino l’abbecedario dell’arte musicale. Una degenerazione simile a quella attuale nella storia della musica sacra e liturgica non si è mai verificata. Per meglio comprendere la portata del problema, basta pensare che oggi, grazie a questi ausili informatici, anche chi non è in grado di ascoltare le note che scrive può “diventare compositore”. (A tal proposito, è bene precisare che L.V. Beethoven -1770/1827 – non era sordo; il grande genio di Bonn era affetto da ipoacusia, cioè l’indebolimento graduale dell’apparato uditivo, che lo portò alla sordità totale nel 1820, cioè pochi anni prima della molte. Quindi, per quasi tutta la sua esistenza, anche se in maniera difettosa, il suo udito era funzionante).

Ecco perché oggi ci si trova di fronte a prodotti musicali dove è assente quella sublime concezione, quell’aura di solennità e di sacralità che dovrebbe contraddistinguere la vera Musica Liturgica.

Quando si fanno queste osservazioni ai diretti interessati, si riceve quasi sempre la stessa risposta: “non capite la mia musica” oppure “non avete la giusta preparazione per comprendere la mia arte”.

Niente di più sbagliato! Solitamente dietro queste affermazioni si nascondono solo coloro che non riescono ad assolvere al compito principale dell’arte sacra per eccellenza, quello, cioè, del parlare di Dio e di innalzare verso l’alto lo spirito dell’ascoltatore orante.

Questa voglia di trasgressione delle regole e dei gusti convenzionali porta solo tanta confusione, dimenticando che, anche adottando un tipo di scrittura musicale moderna, una composizione musicale, soprattutto se liturgica o di argomento sacro, deve “in primis” emozionare l’ascoltatore ed essere sempre orientata verso il bello e, quindi, verso Dio.

Luigi Solidoro

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