Autore: Luigi

Pianista e Compositore

La Musica Liturgica oggi tra approssimazione e dilettantismo

Pubblicato sulla rivista culturale Anxanews, n.97 – gennaio/febbraio 2019, pagg. 25-26

Accade molto spesso di partecipate alla Messa domenicale o alla Celebrazione Liturgica in ricorrenza di una festività religiosa e di provare un profondo disagio ascoltando la musica che viene eseguita.

Per dirla con le parole del maestro Riccardo Muti: “ La Chiesa ha determinato la storia della grande musica, e quando in Chiesa si ascoltano quattro strimpellate di chitarra o canti approssimativamente intonati, con parole insipide e senza senso, accompagnati da organisti che non riescono a suonare in maniera “pulita”, credo che sia un insulto! Questa è mancanza di rispetto all’intelligenza delle persone”.

Ma, oltre al maestro Muti, molti illustri musicisti e musicologi hanno finora affrontato questo problema che, come afferma don Antonio Parisi (autore di innumerevoli brani liturgici eseguiti in tutta Italia), vede schierati tradizionalisti contro innovatori, diplomati contro dilettanti, organo contro chitarra, coro e assemblea in perenne conflitto, canto gregoriano e polifonico contro musica popolare, musica “ritmica giovanile” contro musica tradizionale e via di questo passo.

Anche dalle nostre parti questo fenomeno è alquanto rilevante; ci si trova di frequente, infatti, ad assistere ad esecuzioni musicali molto discutibili, che non invitano alla preghiera o alla meditazione, e che sono lontane anni luce dal loro scopo principale che dovrebbe essere quello di parlare al cuore e di innalzare lo spirito dell’ascoltatore verso Dio.

Vengono, sovente, dimenticati quei principi ispiratori dell’autentica bellezza evocati da Papa Benedetto XVI, o, come afferma Mons. Valentino Miserachs Grau: “… si è arrivati ad un’anarchica proliferazione dei più disparati esperimenti musicali che hanno introdotto un cumulo di banalità mutuate dalla musica leggera di consumo o di altri stravaganti prodotti esotici, dimenticando quanto aveva detto Paolo VI, nel 1968, rivolgendosi ai partecipanti del Congresso Nazionale dell’AISC (Associazione Nazionale di Santa Cecilia): Non tutto ciò che è fuori del Tempio è atto a superare la soglia”.

Sicuramente la causa di questa deriva artistica e spirituale è da ricercare nella mancanza di attenzione alla tutela estetica della Musica Liturgica (destinata, cioè, alla Liturgia).

Non si può non rilevare, purtroppo, l’inadeguata preparazione musicale di coloro che spesso vengono individuati quali responsabili dell’animazione musicale della propria comunità, un tempo Maestri di Cappella del calibro di J.S. Bach, G.F. Handel, J. Haydn, G. Donizetti, L. Perosi etc… solo per citarne alcuni.

Nelle realtà parrocchiali ci si trova di fronte, da un lato, a veri e propri dilettanti volontari che, rendendo un servizio prezioso alle loro comunità, eseguono canzonette in stile pop o melodie simili a stornelli; dall’altro, a musicisti diplomati, si, in Conservatorio, ma digiuni delle competenze specifiche che, pur di far vedere le loro abilità sull’organo, eseguono brani della tradizione liturgica “arricchiti”, per così dire, dall’aggiunta di accordi dissonanti, trilli, acciaccature, arpeggi, scale diatoniche, cromatiche ed ogni altro tipo di ornamento del tutto fuori luogo, stilisticamente inadeguato e che denota un cattivo gusto nell’esecutore.

Queste bizzarre scelte musicali portano all’ascolto di un armonioso fracasso che nulla ha in comune con quello che dovrebbe, invece, esaltare lo spirito e rispettare la sacralità del luogo.

La vanità di questi pseudo – musicisti, desiderosi di momenti di notorietà, dovrebbe esercitarsi in altri momenti e non in luoghi sacri; questi, purtroppo, hanno una visione totalmente deforme del compito che gli è affidato, in netto contrasto e totalmente inconciliabile con quello che dovrebbe essere l’Arte della Musica Liturgica.

Anche Papa Giovanni Paolo II affronta il medesimo argomento scrivendo, in data 2 febbraio 1994, a monsignor Domenico Bartolucci (direttore della Cappella Musicale Pontificia) in occasione del quarto centenario della morte del grande Pierluigi da Palestrina: “ Oggi, come ieri, i musicisti, i compositori, i cantori delle Cappelle liturgiche, gli organisti e gli strumentisti di chiesa devono avvertire la necessità di una seria e rigorosa formazione professionale. Soprattutto dovranno essere consapevoli che ogni loro creazione o interpretazione non si sottrae all’esigenza di essere opera ispirata, corretta, attenta alla dignità estetica, sì da trasformarsi in preghiera orante”.

Dello stesso tono, qualche anno dopo, l’affermazione di don Guido Genero: “… gli organisti (e, in genere, i musicisti che suonano nelle celebrazioni liturgiche) si impegnino per una vera formazione liturgica, basata sulla comprensione specialistica dell’azione celebrativa cattolica e delle sue ragioni. E’ evidente che, senza un chiaro riferimento al sentire tipicamente ecclesiale intorno alla liturgia come esperienza religiosa, non sia possibile un esercizio credibile e proficuo di questo ruolo musicale”.

Un altro aspetto molto importante riguarda le forme musicali che dovrebbero adottare i compositori di tale musica. Queste vanno adeguate e pensate secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II (1962-1965), secondo il quale, nel capitolo VI, l’Assemblea orante non deve fungere solo da spettatore, come succede in teatro, ma deve avere la possibilità di interagire con il coro perché parte attiva dell’azione liturgica. Sono bandite, quindi, le figure di quei cantori solisti che si esibiscono, in maniera pedante e a volte anche discutibile, dall’inizio alla fine della liturgia, quasi come in un recital lirico.

A tal proposito, sempre Papa Giovanni Paolo II affermava: “Sono da conservare e promuovere lo studio e la pratica della musica e del canto in quegli ambiti e con quegli strumenti che il Concilio Vaticano II ha indicato come privilegiati: il canto gregoriano, la polifonia sacra e l’organo. Solo cosi la Musica Liturgica potrà assolvere degnamente il suo compito nel contesto della celebrazione dei Sacramenti e, in modo speciale, della Santa Messa”.

Si comprende bene, quindi, l’assoluta insensibilità, etica ma anche religiosa, e la scarsa preparazione che si ritrova, purtroppo, anche nelle produzioni di taluni compositori del nostro tempo che, ignorando la contestualizzazione e la funzione delle loro opere musicali, elaborano composizioni miscelando stili musicali vari, armonie jazzistiche, ritmi di valzer, di tango, atmosfere da film dell’orrore, dettati dal tentativo di fare altro e dalla voglia di essere innovativi. Inoltre, con il galoppante sviluppo della tecnologia e l’avvento di software di scrittura musicale e composizione (dove è il pc a suggerire quali note scrivere sul pentagramma), si è giunti ad una moltitudine di compositori, o sedicenti tali, che, senza l’aiuto di questi programmi tecnologici, mai avrebbero potuto creare un brano musicale. Molta “musica” che si scrive oggi, infatti, ignora, non dico la grammatica musicale, ma perfino l’abbecedario dell’arte musicale. Una degenerazione simile a quella attuale nella storia della musica sacra e liturgica non si è mai verificata. Per meglio comprendere la portata del problema, basta pensare che oggi, grazie a questi ausili informatici, anche chi non è in grado di ascoltare le note che scrive può “diventare compositore”. (A tal proposito, è bene precisare che L.V. Beethoven -1770/1827 – non era sordo; il grande genio di Bonn era affetto da ipoacusia, cioè l’indebolimento graduale dell’apparato uditivo, che lo portò alla sordità totale nel 1820, cioè pochi anni prima della molte. Quindi, per quasi tutta la sua esistenza, anche se in maniera difettosa, il suo udito era funzionante).

Ecco perché oggi ci si trova di fronte a prodotti musicali dove è assente quella sublime concezione, quell’aura di solennità e di sacralità che dovrebbe contraddistinguere la vera Musica Liturgica.

Quando si fanno queste osservazioni ai diretti interessati, si riceve quasi sempre la stessa risposta: “non capite la mia musica” oppure “non avete la giusta preparazione per comprendere la mia arte”.

Niente di più sbagliato! Solitamente dietro queste affermazioni si nascondono solo coloro che non riescono ad assolvere al compito principale dell’arte sacra per eccellenza, quello, cioè, del parlare di Dio e di innalzare verso l’alto lo spirito dell’ascoltatore orante.

Questa voglia di trasgressione delle regole e dei gusti convenzionali porta solo tanta confusione, dimenticando che, anche adottando un tipo di scrittura musicale moderna, una composizione musicale, soprattutto se liturgica o di argomento sacro, deve “in primis” emozionare l’ascoltatore ed essere sempre orientata verso il bello e, quindi, verso Dio.

Luigi Solidoro

Le composizioni musicali dedicate a Santa Cristina, Patrona secondaria della Città di Gallipoli

Pubblicato sulla rivista culturale Anxanews, n.100 – luglio/agosto 2019, pagg. 33-34;

e con aggiunte, sulla rivista culturale on line Il pensiero mediterraneo, del 23 luglio 2022.


Le composizioni musicali gallipoline dedicate alla patrona Santa Cristina consistono in tre Inni Sacri composti da altrettanti compositori locali.

L’Inno è un componimento poetico – musicale caratterizzato da una struttura strofica e destinato alle celebrazioni religiose; viene infatti cantato da un coro e accompagnato dall’organo o, molto spesso, strumentato per banda musicale per essere eseguito durante la processione.

La canzone e preghiera per Santa Cristina L’aurora di Tiro di Vincenzo Alemanno è stata musicata nel 1868 ed è composta da quattro strofe che seguono lo schema formale A B B A, dove la sezione A è in tempo 3/4 ed in tonalità di Lab Maggiore, mentre la sezione B è in tempo 4/4 ed in tonalità di Mib Maggiore con una chiusura in tempo di 6/8, dove la prima è solo strumentale, mentre nella seconda (B) si aggiunge anche il canto.

La musica è in perfetto stile ottocentesco, melodiosa e scorrevole; con eleganza e forte slancio romantico, l’autore ha saputo splendidamente interpretare il clima spirituale e culturale della Gallipoli del secondo ottocento. Inoltre, considerando che il Patrocinio di Santa Cristina a Gallipoli risale al 1867, questa composizione ha una grande importanza storica: quella, cioè, di essere il più antico Inno Sacro gallipolino ad oggi pervenuto, nonché il precursore di tutte le composizioni sacre cittadine successive che a questo hanno guardato.

Attualmente di questa composizione sopravvivono due manoscritti originali per canto e pianoforte, conservati l’uno nel Fondo Vernole della Biblioteca Comunale di Gallipoli, l’altro dal sottoscritto, ereditato da un fondo privato.

Sempre nel Fondo Vernole sono conservate anche le parti strumentali (le c.d. parti staccate per banda) utilizzate dalla banda musicale gallipolina dell’epoca diretta dal maestro Ercole Panico.

All’indomani della morte del Ercole Panico, avvenuta nel 1891, Gallipoli affidò la sua banda a diversi maestri di musica: prima Antonio Puzzone, il quale cercò di rinsaldare le fila dei resti della banda del Panico, e poi anche Raffaele De Somma, con la c.d. “Banda del popolo”, e Prisciano Martucci da Cerignola, con la c.d. “Banda Municipale”, ma anche il celebre Francesco Luigi Bianco, che accettò quest’incarico dopo molte insistenze.

Vennero così composti gli altri due Inni Sacri dedicati a Santa Cristina, uno del maestro Raffaele de Somma e l’altro del maestro Francesco Luigi Bianco. Le motivazioni che hanno spinto i due maestri a scrivere tale musica vanno cercate, quindi, non solo nella fede verso la Santa Patrona, ma soprattutto nella necessità di avere materiale musicale da poter eseguire durante la processione o la festa. Bisogna pensare, infatti, che in quel periodo era difficilissimo acquistare o reperire spartiti musicali, soprattutto quelli destinati alla banda, né tantomeno esisteva il web dove poter reperire qualsiasi tipo di musica con un semplice click. I direttori di banda, infatti, erano costretti a comporre musica originale utilizzando i versi di poeti locali per poter svolgere quei servizi musicali affidati al loro complesso strumentale a seconda delle esigenze celebrative che si presentavano di volta in volta.

L’Inno Giglio ridente e candido composto dal maestro Raffaele De Somma ha la prima strofa in tonalità di Reb Maggiore ed in tempo di 2/4 (con una lunga introduzione strumentale di 36 battute), la seconda strofa in tempo di 3/4, sempre in Reb Maggiore, ed una Preghiera finale in tempo 2/4 in tonalità di Lab Maggiore (con un’introduzione di 15 battute). Il testo poetico è del sacerdote Francesco Magno e sul frontespizio della partitura originale, di proprietà della Confraternita della Purità di Gallipoli) si legge: “Gallipoli,1909 – Fano, 1926. Dono dell’autore”.

L’inno presenta una scrittura musicale moderna, quasi difficile ad essere apprezzata al primo ascolto, che risente dello stile espressionista che si andava affermando in quegli anni in Italia, con l’abbandono degli schemi armonici e melodici tipici del secolo romantico appena trascorso. Le inusuali scelte armoniche attuate, infatti, lasciano intravedere la volontà del maestro di produrre qualcosa che fosse nuovo e mai ascoltato prima, in linea con le produzioni musicali dei grandi musicisti dell’epoca.

Su un piano decisamente opposto si colloca, invece, l’Inno del maestro Francesco Luigi Bianco, Salve, celeste Martire, che rimane saldamente ancorato agli schemi melodici e armonici ottocenteschi. È scritto in tonalità di Fa Maggiore ed in tempo 4/4 e reca un’introduzione in terzine di 15 battute che viene utilizzata in forma ridotta come intermezzo tra le varie strofe.

Come detto precedentemente, l’Inno è una composizione strofica, caratterizzata, quindi, dall’assenza di un ritornello (quella parte, cioè, della composizione che viene ripetuta in alternanza alle strofe e che risulta particolarmente orecchiabile). Il maestro Bianco, invece, che per natura possedeva il cosiddetto dono della melodia, pur di creare qualcosa che rimanesse scolpito nell’orecchio dell’ascoltatore e dei fedeli, come era suo solito, utilizza i primi due versi della prima strofa del testo poetico (“Salve, celeste Martire/diletta del Signor”) e, con la genialità compositiva che lo contraddistingueva, riesce a creare un ritornello che si inserisce nel finale di ogni strofa senza, però, alterare la struttura formale dell’intero testo.

La Confraternita della Purità di Gallipoli possiede più arrangiamenti per banda di questo brano, arrangiamenti che riportano tante piccole varianti rispetto all’originale; la versione presa in analisi dal sottoscritto è quella autografa, che era sicuramente una prima stesura o una brutta copia poiché presenta delle cancellazioni, e la grafia appare disordinata, come se fosse stata scritta in velocità dal copista di fiducia del maestro. Sul retro dell’ultima pagina questo spartito presenta una dicitura scritta da un altro musicista dilettante gallipolino del XX secolo, Michele Pagani, che riporto fedelmente: “28/10/42 Ritrovato nelle carte buttate del Professor Bianchi. Concede alla Chiesa della Purità”, dove il cognome Bianco viene erroneamente mutato in Bianchi.

La spontaneità musicale e la bellezza della linea melodica, semplice e mai banale, fanno di questo brano una vera e propria opera d’arte, un’autentica pietra miliare che si va ad incastonare nel vasto repertorio musicale sacro che la città di Gallipoli possiede e che la rendono unica ed invidiabile.

Per completezza di esposizione, si precisa che un altro compositore gallipolino, Alceste Citta, secondo quanto riportato da un articolo del giornale Spartaco nel Luglio del 1898, compose un Inno alla Santa di Bolsena, scritto per voce di fanciulli e dedicato ad Antonietta Barba, figlia del famoso professore; composizione purtroppo andata perduta.

Inoltre, degne di menzione sono le due composizioni del compianto Andrea Casole, anche lui gallipolino, giovane e appassionato compositore di numerosi brani di musica liturgica che ci ha lasciati troppo presto: la preghiera che la Santa rivolge a Dio durante il martirio (trattasi di una Antifona post Communio il cui testo è tratto dal Martirologio della Santa), nonché la commovente invocazione Salve, dolce Cristina cantata dai devoti per ottenere la sua intercessione dinanzi al trono celeste.

Luigi Solidoro

Risorgimento e Musica: Michele Panico da Neviano e il ruolo delle fanfare in Terra d’Otranto

Pubblicato il 12 dicembre 2020 sulla rivista culturale on line Il pensiero mediterraneo


Tutto il periodo che va dal 1815 al 1870, passato alla storia con il nome di Risorgimento, è stato caratterizzato da moti rivoluzionari e da fermenti patriottici e libertari, che non hanno risparmiato la nostra bella Terra d’Otranto.
La Carboneria, società segreta a sua volta derivante dall’antica Massoneria o Libera Muratoria, si era già diffusa in modo particolare nell’Italia meridionale nei primi anni del secolo XIX° per iniziativa delle truppe napoleoniche, che qui stanziarono dal 1803 al 1805, ed il suo tratto saliente era stato lo spirito di opposizione alla politica filo-napoleonica di Gioacchino Murat.
Ma ben presto, con il ritorno di Re Ferdinando a Napoli e la conseguente Restaurazione, che aveva soffocato nel sangue le legittime aspirazioni dei popoli alla libertà e all’indipendenza nonché tutti gli ideali che un tempo erano stati propugnati dalla Rivoluzione Francese, la Carboneria acquistò connotazioni antimonarchiche. Questa società segreta reclutò moltissimi patrioti tra studenti, ufficiali e nobili, e dall’arte dei carbonai, che preparavano il carbone e lo vendevano al minuto, trasse le sue denominazioni.


Tra i paesi appartenenti alla Terra d’Otranto spiccava Gallipoli, dove la situazione era particolarmente accesa, poiché la città era divisa in due grandi fazioni. La prima faceva capo alla vendita L’Asilo dell’onestà, attivista, intransigente e turbolenta, la seconda era scaturita dall’esigenza di porre freno ai disordini provocati dalla prima e di garantire l’ordine cittadino e prese il nome di Utica del Salento.
La prima vendita era capeggiato da Domenico Perrone, Carlo Patitari, Antonio Piccioli, Pasquale Tafuri e Domenico Fersini, la seconda dal canonico Antonio De Pace, da Carlo Leopizzi e Francesco Forcignanò; tra i partecipanti vi erano Bernardo Ravenna, Domenico Antonio De Rossi, Felice Leopizzi, Angelo Spirito e il sacerdote Gaspare Vergine di Corigliano. I contrasti tra i due partiti durarono per tutto il decennio tra il 1820 e il 1830, periodo durante il quale i Carbonari vennero anche perseguitati da parte del Generale Riccardo Church che, in una statistica di ribelli compilata di concerto con l’Ispettore di polizia Borrelli e dall’Intendente di Terra d’Otranto Ferdinando Cito di Torrecuso, solo a Gallipoli identificò ben 78 settari, la maggior parte dei quali qualificati come effervescentiriscaldatipericolosi, e tutti di condotta irreligiosaimmorale e ostile al governo.


Fu questo il contesto storico, politico e culturale nel quale operò Michele Panico, nato a Neviano nel 1796, dal calzolaio Ugone e da Santa Resta. Essendo un convinto patriota antiborbonico, già dall’anno 1814, ancora giovanissimo, venne sottoposto a vigilanza speciale da parte della gendarmeria. Negli anni Venti del XIX° secolo fondò a Neviano una delle più note e movimentate tra le fanfare di Puglia, riunendo molti appassionati di musica ma soprattutto molti ferventi spiriti liberali.
Michele Panico era un capobanda in tutti i sensi, non solo del concerto musicale, ma anche CarbonaroFiladelfo graduato da Assistente e Caporale della Legione, ma a preoccupare la polizia borbonica era soprattutto l’amicizia che lo legava ad esponenti di spicco del tempo, che godevano di un certo potere e di una certa protezione a causa della funzione ricoperta, come il Sindaco di Neviano, Michele Resta, ed il cancelliere Raffaele Piccioli. Nel 1830 il capobanda venne confinato a Gallipoli, ma la sua attività concertistico-rivoluzionaria non cessò, tanto che al Sottintendente Filangieri fu comandato di sorvegliarlo ovunque si spostasse, anche qualora si trattasse di esibizioni musicali con la sua banda.
All’esito di questa speciale sorveglianza Michele Panico fu condotto e trattenuto a Lecce per due giorni, ma appena rilasciato, tornò in paese vantandosi a gran voce che l’Intendente non aveva preso in gran considerazione le sue mancanze. La sua condotta negli anni successivi non cambiò minimamente, tanto che il 10 giugno 1849, in Neviano, durante la festa del Corpus Domini, fu coinvolto nel celebre episodio che ebbe come protagonista il patriota gallipolino Leopoldo Rossi, che riuscì ad evitare l’arresto da parte della gendarmeria borbonica proprio grazie all’intervento della banda musicale e del suo direttore, i quali, brandendo i propri strumenti a mo’ di arma riuscirono a proteggerlo e ad aprirgli una via di fuga: la vicenda assunse connotati romanzeschi e, all’epoca, fece il giro della Provincia suscitando l’ilarità di molti.
Con l’aiuto di un vecchio amico Francesco Colazzo, l’ex intendente della Guardia Urbana divenuto nel frattempo Sindaco, e di Michele Resta, passato dalla carica di Sindaco all’attività di Cancelliere, la Banda musicale di Neviano fu assolta dalle imputazioni, ma fu costretta a sciogliersi, ed il maestro Panico fu arrestato e condotto in prigione. Fortunatamente l’esperienza carceraria durò poco e, dopo il 1850, Michele Panico non si espose più in attività palesemente rivoltose e morì a Gallipoli, nel 1861, senza potersi godere (ironia della sorte!) l’appena proclamata Unità d’Italia.


La rivoluzione musicale posta in essere dalle fanfare durante il periodo risorgimentale, le quali avevano divulgato nelle piazze la bellezza del melodramma, aveva permesso a larghi strati della popolazione di avvicinarsi alla musica attraverso l’ascolto gratuito in spazi accessibili a tutti. Ed infatti, le fanfare, nate come una sorta di dopolavoro, non furono solo un onesto passatempo, ma anche un mezzo di educazione e di utilità pubblica, rivolto a promuovere il progresso e la civilizzazione. Essendo una naturale cornice a feste e a cerimonie sia civili che religiose, esse ebbero un ruolo fondamentale nella ricostruzione politica, sociale e soprattutto morale di quello che poi sarebbe diventato il popolo italiano, veicolando motivi patriottici e diffondendo sentimenti di libertà attraverso le note di illustri compositori e accomunando uomini di diversa estrazione sociale attraverso un linguaggio universale, quello della musica.


Agli inizi degli anni venti del XIX° secolo, la polizia borbonica, comprendendo le potenzialità comunicative e la portata rivoluzionaria della musica, cominciò in un primo momento a schedare tutti coloro che entravano a far parte di queste formazioni musicali che, sotto l’apparenza ludica, celavano quasi sempre covi di anarchici e insurrezionalisti appartenenti a tutte le classi sociali e, successivamente, a coinvolgerli in tutte le principali ricorrenze del Regno, al fine di celebrare il regime stesso. Questi gruppi di musicisti vennero così inquadrati nelle strutture civiche dell’amministrazione borbonica: la c.d. Guardia Urbana, un vero e proprio corpo paramilitare.
Qualche anno più tardi, per contrastare l’uso ancora vigente di indossare divise di ispirazione napoleonica, ai bandisti venne imposto di indossare una determinata divisa e di dotarsi di patente (patentiglia) che li identificasse e li autorizzasse ad esercitare l’attività, previo accertamento della loro fedeltà al regime.
In particolare, la Guardia Urbana di Neviano risulta essere installata nel 1828 sotto la guida del notabile Carmine Romano che ne rimarrà a capo fino al 1841, anno della sua destituzione. Dal 1828 al 1841 i bandisti della Guardia Urbana non indosseranno uniformi e non avranno la patentiglia che diverrà obbligatoria solo successivamente.
Nel 1853, anche la Banda di Neviano, la medesima che solo qualche anno prima era stata inquisita per sedizione, figurerà nell’elenco delle trentadue Bande musicali salentine approvate dall’amministrazione borbonica.

Luigi Solidoro

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